PARMA INTERNATIONAL MUSIC FILM FESTIVAL: TIDES DI ALESSANDRO NEGRINI – RACCONTO I CONFINI PERCHE’ SONO UN CONTRABBANDIERE.

Derry è una delle città più antiche d’Irlanda, teatro di scontri, eventi tragici come il Bloody Sunday, divisioni di carattere religioso. Il separatore inconsapevole degli uomini che la abitano è il Foyle, il fiume che la attraversa.

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Alessandro Negrini lo elegge a protagonista e narratore del suo film Tides, Storia di vite e sogni perduti e trovati (alcuni infranti) per raccontare il concetto di confine.

Il film ha avuto riconoscimenti internazionali e sbarca ora a Parma, in concorso al Parma International Music Film Festival.

Sarà in programma venerdì 22 alla Casa della Musica alle ore 17,30. In sala anche il regista dell’opera Alessandro Negrini.

Com’è nato il progetto di Tides?

Tides nasce da un desiderio: raccontare l’assurdità dei confini e delle frontiere attraverso l’ineluttabile libertà di un fiume, il Foyle In Irlanda del Nord, il quale si è ritrovato a diventare ciò che non era nato per essere: un confine.

E al contempo, Tides è nato da un altro desiderio: creare una sorta di enciclopedia visiva dei sogni dimenticati: non solo i cattolici e i protestanti in Irlanda del Nord, ma anche gli amici e le persone che incontriamo costantemente, hanno dentro di sé un pezzo mancante, un luogo inesplorato.

Mi premeva raccontare questo luogo che non esiste se non nella nostra memoria, una seconda storia fatta di aspirazioni, promesse a sé stessi, profondi desideri che per cause storiche, personali o sociali, lentamente ma inesorabilmente, furono addomesticati.

Un territorio, quello del sogno, oramai costretto nelle riserve, come gli indiani in America. Oggi, in un mondo prevalentemente consumistico, non dico la parola “Utopia”, ma persino la parola “Sogno” sembra essere diventata “risibile”. Ci hanno scippato questa spinta vitale e i cimiteri sono pieni di gente che sognava un’altra vita.

Tides a suo modo vuole evocare quel luogo dimenticato, ma che esiste, dove ci si alza la mattina ospitando dentro il sogno d’esser uomini migliori.

Un punto di vista del narrare molto particolare, quello di un fiume. A cosa ti sei ispirato per la scrittura del film?

Sapevo che volevo dare voce alla storia mai raccontata di questo fiume, da un punto di vista diverso. Cosa c’era di meglio del dar voce a una storia di confini, se non al confine stesso? Però, dare voce ad un fiume -confine, non è stata cosa semplice.

Come parla, che linguaggio può avere un fiume? L’unica forma di linguaggio che poteva declinare la maestosità di questo confine in una storia universale, era il linguaggio della poesia.

Ho così cercato un tipo di linguaggio che fosse al contempo saggio ma anche innocente, capace di raccontare come i fiumi siano la perfetta metafora visiva della Storia: se ne vanno, restando.

Però il fiume doveva parlare per forza con un timbro ed un tono onirico.

Come diceva Artaud, bisogna narrare la realtà in modo onirico per meglio crocifiggerla.

Raccontare il concetto di confine: cosa significa per te?

Significa investigarlo e scavalcarlo. La poesia parla per paradossi, e ti consente, attraverso le domande che pone, di mostrare il provincialismo di qualunque muro o confine. Il confine è una nozione. Non esiste in natura.

Sono quasi certo che se non fossi finito col fare il regista, avrei fatto il contrabbandiere. Un mestiere molto simile a quello dei registi di documentari.

Questo facciamo: violiamo i confini, per portare, a volte clandestinamente, da un paese all’altro – le storie. Storie apparentemente piccole, ma che sono pregne di una poesia fortuita: la poesia dei vinti. Penso anche che la Storia si muova per violazioni di tabù.

Una volta sdoganata la sessualità, bisognava trovare un altro tabù: l’identità nazionale o religiosa come universo puro, con i confini che la delimitano.

Ed i confini, più sono assurdi, meno sono visibili, perché la nostra mente tende ad abituarsi a loro.

Rammento una volta a Belfast, assistetti a questa cosa: una donna cinese, alla fermata del bus, fu avvicinata da dei ragazzini che le chiesero di dove lei fosse. “Sono cinese”, rispose.

Uno dei ragazzini, un po’ perplesso, ci pensò su’, e le chiese: “Ma cinese cattolica o cinese protestante?”. I confini, in particolare quelli nazional-religiosi, sono solchi nella mente, che delineano un “noi” ed un “loro”.

Forse, in fondo, racconto i confini perché’ sono un contrabbandiere, e per dire alle persone di andare a bere insieme.

Il film sta avendo riconoscimenti a livello internazionale. Cosa ti ha colpito di più nelle reazioni di critica e pubblico?

Quello che mi ha colpito sino ad ora negli incontri col pubblico e con le giurie dei festival, da Chicago alla Bosnia, è come la storia di questo fiume lontano possa diventare bacino di storie comuni ed identificanti. Tutti ospitiamo delle aspirazioni accantonate, o domate.

Tutti, almeno una volta, ci siamo domandati – “Dove sono a casa?”. Forse Tides contiene una sua rilettura fluida dei confini, dell’ appartenenza, della memoria. Mi viene in mente un bellissimo libro, “Saggio sull’esotismo” di Victor Segalen, dove ad un certo punto dice che i viaggi sono come le storie, vi cerchiamo dentro la chiave della casa che abbiamo abbandonato.

La mia piccola aspirazione è forse proprio questa: che Tides sappia far intravedere quella chiave, trasmettere un ripensamento della parola “frontiera”, dell’essere “in between”, lo stare fuori e tuttavia ancora dentro i confini dei propri sogni.

Detto questo, non avrei mai pensato che Tides avrebbe viaggiato così tanto in giro per il mondo. Proprio ieri un’amica mi ha ricordato che, poco dopo aver terminato il film dissi: “Non so se Tides viaggerà molto, è un film particolare, più difficile”. Evidentemente, e felicemente, posso esser contrabbandiere ma non cartomante.

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