Guerra, Capitalismo e Libertà: l’arte senza permesso di Banksy

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È di ieri la notizia che Banksy, lo street artist britannico tra i più famosi al mondo, ha lasciato la sua ultima creazione sulla facciata una scuola elementare di Bristol, sua città natale, per ringraziare l’istituto che ha nominato un’aula in suo onore.

Il murale, con tanto di lettera dedicatoria lasciata per terra davanti al graffito, raffigura una bambina stilizzata che gioca con il copertone di una ruota in fiamme. Banksy ci tiene a far sapere ai ragazzi che sono liberi di modificare il murale come più gli piace aggiungendo:

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«Ricordate, è più facile ottenere il perdono che il permesso».

Ci tiene ad educarli alla libertà, d’espressione innanzitutto, ma soprattutto dalle convenzioni, dalle regole del capitalismo, dalla paura del diverso, dall’orrore della guerra.

L’artista

Ma chi è davvero Banksy? Nessuno lo sa. Ciò che si sa per certo è che sia nato a Bristol nel 1974, che le sue opere siano cominciate ad apparire sui muri delle città britanniche e di tutto il mondo dagli anni ‘90 e che faccia proprio del suo anonimato un’arma in favore della sua libertà espressiva. «L’invisibilità è un superpotere», afferma Banksy nel suo eloquente e cinico libro Wall and Piece. Ed è proprio grazie alla maschera che lo rende irriconoscibile che ha potuto prendersi il lusso di lottare per i più deboli, gli ultimi, gli emarginati.

La mostra

Guerra, capitalismo e libertà, temi centrali nella sua arte. Motivo per cui la fondazione Terzo Pilastro ha voluto farne il titolo di una mostra di respiro internazionale che raccoglie 150 lavori da collezioni private (non rubate alla strada) firmati dallo stesso Banksy al Palazzo Cipolla di Roma fino al 4 Settembre. Siamo andati a vederla per voi e cercheremo di darvene un assaggio senza rovinarvi il gusto della visita.
Entrando, ci si stupisce subito della versatilità dell’artista che ha fatto dello stencil la sua cifra distintiva dagli altri writers. La sua bomboletta riproduce i più celebri murales su fogli di alluminio, su tele, su porte in legno, cassettiere in alluminio, cancellate in ferro. Vi sono perfino tempere su tela che non hanno nulla da invidiare agli artisti “convenzionali”.

Si respira chiara ribellione, rabbia per la svolta consumistica che ha subìto il mondo da trent’anni a questa parte (Girl with TV, No ball games, Sales end), insofferenza nei confronti della “schiavitù della guerra” (Applause, nella foto di Dario Lasagni). A tal proposito, soldati e poliziotti rappresentati in momenti di guerra con smile al posto dei volti parlano da soli  (Have a nice day). E poi c’è l’indifferenza, quando non l’odio, riservato al diverso. Banksy si fa paladino degli ultimi identificati nei ratti e nelle scimmie dei suoi disegni, in rappresentanza di coloro che di solito vengono derisi, schifati dalla stessa società che li ospita e dà loro vita.

“I topi, bistrattati e odiati, vivono nel sudiciume, nessuno dà loro il permesso di esistere, ma sono in grado di piegare intere civiltà. Se sei piccolo, insignificante e poco amato allora i topi sono il modello definitivo da seguire.”

Il fatto che le sue opere, per natura libere, siano “intrappolate” nel chiuso di un museo, non dà loro minore intensità. Anzi, esposte per una no-profit che ha preso in prestito da collezionisti volontari, le opere possono giungere al cuore dei destinatari prediletti dall’artista britannico, i ragazzi.

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