Ci accoglie una scenografia basilare, sul palco della sala Bartoli del Politeama Rossetti di Trieste, la sera di San Valentino.

Uno sfondo blu con delle nuvole, un tavolo, delle sedie, un cuscino, una chitarra e poco altro.

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E poi si presentano quattro attori: una ragazza in disparte, (Irene Lamponi, protagonista e autrice della commedia) con una postura che suggerisce chiusura verso il mondo, due donne a cui la depressione e l’amarezza ronzano intorno (Elena Callegari e Cristina Cavalli), e un ragazzo, (Marco Rizzo) fuori dal raggio delle luci, che lì per lì sembra solamente uno di quegli addetti agli spostamenti degli oggetti di scena.

A quel punto ci chiediamo: “Che cosa potrebbero mai raccontare?”.

Il pubblico odierno è esigente. Vuole luci, effetti sonori, scenografie che ruotano, si sollevano… Mentre qui non vi è nulla di tutto questo, anzi.

Tropicana di Irene LamponiTropicana è qualcosa di diverso, qualcosa di essenziale, quasi sembra di tornare alle origini, quando il materiale era poco e il compito di ricreare la scena era affidato alla fantasia dello spettatore, con il solo aiuto della voce dei personaggi, e di qualche loro sguardo.

Ed è proprio questo che accade: inaspettatamente, quei personaggi che all’inizio si muovono un po’ incerti e meccanici, forse presi dall’emozione, riescono poi a ricreare un pasto consumato in salotto, o un’intera parete riempita di citazioni e saluti, permettendoci di vedere tutto ciò, anche se materialmente non ci sono né piatti né muri, solo dialogando fra loro.

Accompagnano questa loro piacevole e simpatica modalità di fare teatro, un coinvolgimento del pubblico, attraverso la canzone che dà il titolo allo spettacolo, fatta risuonare proprio attorno alla platea, e molte scene a carattere simbolico che ci mettono, inevitabilmente, con le spalle al muro, e non possiamo fare a meno di fermarci e interrogare noi stessi.

I temi trattati sono molti, e lasciano con l’amaro in bocca. Un marito e padre che abbandona la sua famiglia, una madre in lotta con la depressione, un’amica che vive di rimpianti e rimorsi, una figlia data in pasto all’insicurezza.

Uno spettacolo che, proprio per queste tematiche “scomode”, potrebbe far storcere qualche naso. Eppure, si tratta semplicemente di tutte le sfumature della solitudine, della paura umana di restare soli, di perdere tutto, e sono temi che ci toccano, inutile negarlo.

Quanto è più facile scegliere di arrabbiarsi con le persone che si hanno più vicino invece di affrontare le nostre paure? Tropicana ce lo chiede, implicitamente, tra una battuta urlata e un silenzio costretto.

Un’ora e dieci minuti che volano, un applauso meritato agli attori, una recitazione parlata, senza essere eccessivamente – e innaturalmente – marcata, non senza sbavature qua e là, certo, e con qualche sovrapposizione tra basi musicali e dialoghi, ma il messaggio c’era; raccontato da persone semplici in maniera originale, con un sorriso e senza pretese, che ci fanno vedere uno spiraglio di luce alla fine di quel grande tunnel che sembra la vita, quando tutto si fa buio intorno a noi.

L’unico effetto collaterale: canticchiare a mezza voce quel motivetto di più di tre decenni fa, per il resto della serata.

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