Lo stupro di Lucrezia al Teatro dei Conciatori. Il tempo si ferma

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Il Teatro dei Conciatori di Roma apre la nuova stagione 2016/2017 con lo spettacolo Lo stupro di Lucrezia dal 14 al 18 settembre. Per la regia di Luca De Bei, vede sul palco una bravissima Federica Bern. L’attrice parte da Lucrezia per farci capire che, circa i diritti e il rispetto delle donne, è cambiato assai poco dal 508 a.C. ad oggi.

Un lasso di tempo che non divide tanto per ere storiche, ma accomuna per circostanze che si ripetono in ogni luogo e in ogni dove. Dal poema di Shakespeare un excursus che dall’epoca romana giunge al contemporaneo accompagnando le storie di cinque donne usurpate dei loro diritti e della loro dignità. Non si sono mai fermate e rinnegate, ma hanno solo saputo combattere fino alla fine con la loro voce

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La Bern si presenta avvolta da un tulle. Rosso. Sinonimo di sangue e sofferenza. Poi si svela, portandoci ad Ardea durante l’assedio dei Romani. Il figlio del Re Tarquinio il Superbo, Sesto Tarquinio, abusa di lei. Donna forte e ribelle, denuncia la verità al marito e alla società romana, ottenendo così l’allontanamento del tiranno dalla città di Roma, ma sacrificando se stessa e i suoi ideali. Muovendosi dentro le scene di Valeria Mangiò e vestendo i costumi Camilla Marcelli, il viaggio è interessante e intenso.

Berta Caceres, Paola Clemente e KIana Firouz

Questo è il primo esempio a cui assistiamo. Una voce ribelle, un archetipo, un esempio, che si ripete e ripercuote nella storia. Berta Càceres, attivista honduregna, è stata uccisa solo per aver difeso l’ecosistema prezioso e inestimabile dell’Honduras, e aver difeso i popoli indigeni; una bimba yemenita di 11 anni fugge dalla famiglia e dal sopruso di essere una sposa bambina; Paola Clemente è vittima del caporalato in Puglia; Kiana Firouz, iraniana, ma lesbica, attrice e attivista per i diritti LGBT, va a a Londra per ricominciare la sua vita: gira un film autobiografico e ottiene asilo politico.

Da questa esibizione acquisiamo innumerevoli informazioni. Questo tipo di teatro, che possiamo definire sociale, ci nutre di pezzi di storia e di vita. Le protagoniste vengono private del loro desiderio di vivere, di studiare, di lottare, di sognare. Soprattutto se le donne sono protagoniste: parlano, si indignano se qualcosa non funziona, si ribellano e occupano posti di rilevanza sociale. E la voce dell’uomo – cosiddetto – sembra essere sempre la più forte.

Federica Bern ci descrive dei quadri fatti di contestazione. Ognuno di essi caratterizzato a suo modo: identificano un ambiente, uno spazio. La portata della voce è molto pulita e cadenzata: perfetta. Ogni donna ha la sua parlata. Vengono così descritte situazioni di sofferenza e di dolore accompagnate da un sottofondo sarcastico che fa da controaltare.

Molti sono i momenti intensi. Vorremmo non descriverne alcuno, per non rovinare la sorpresa agli astanti, ma due storie sono particolarmente adatte e meritano un accenno. Con delle marionette, l’attrice ci presenta la vicenda della bimba yemenita con divertimento e semplicità: alla portata dei bambini. Una storia cruda, che spezza le corde della crescita verso l’essere donna. Una scena, dunque, ricca di fantasia, in cui due menti geniali – l’attrice e il regista – hanno trovato il modo di rivolgersi al pubblico mediante un linguaggio diverso.

Paola Clemente, invece, è pugliese.

In dialetto ci racconta la sua vita: il suo matrimonio, i suoi figli. Si gode il silenzio: vede l’orizzonte e il mare. Lavora tanto, lei. “Ero stanca – dice – semplicemente non ce l’ho fatta più“. A causa dello fruttamento, del poco guadagno e del denaro da restituire ai caporali, il suo stato di salute è flebile, poiché non riesce mai ad affrontare le spese mediche e ad acquistare le medicine necessarie. Però, nel “raccogliere l’uva guardi il cielo, lavori, e con la testa sei da un’altra parte“. Una positività che traspare. Lei pensa: qualcosa deve cambiare. Ma chi cambia la legge? Sentirsi fantasmi o invisibili significa essere silenti.

Caratteri combattivi che, di fronte alle difficoltà, non si sono mai arresi. Appropriarsi delle proprie scelte è una vittoria: diventare simboli di battaglie giuste e civili significa andare contro il capitalismo, il razzismo, il patriarcato, le pene capitali. Rivolgendosi alle donne, le si incita a costruire, sempre. A investire su progetti rivolti a loro e a cercare di proteggerle di fronte agli abusi da parte degli uomini, sia per riabilitarle al mondo, sia davanti a loro stesse e alla loro dignità.

Soprattutto, Lo stupro di Lucrezia concepito in questa veste, che vanta di una regia lineare e senza alcuna sbavatura, dovrebbe essere un insegnamento per gli uomini. Per quelli che dovrebbero imparare a non prevaricare in nessuna maniera e in nessuna società. A rispettare la donna, perché per ragione e intelligenza, essa è un motore forte e pieno di infinite risorse.

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