Nel 1947, 8 compagnie teatrali (6 scozzesi e 2 inglesi) si videro rifiutare l’accesso, per presunti motivi artistici, alla prima edizione dell’Edinburgh International Festival. Decisi a esibirsi nonostante tutto, misero in scena i loro lavori nella cattedrale di Dumferline, 25 km a nord di Edimburgo.

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L’attività ebbe successo, e l’anno seguente, quando fu replicata, il giornalista Robert Kemp scrisse che l’International Festival aveva un concorrente “ai margini” (fringe). Da lì fu preso il nome, che poi è rimasto negli anni, in tutto il mondo, come sinonimo di un’esibizione libera da ogni vincolo e dal placet di una direzione artistica.

70 anni dopo, il Fringe Festival è un’enorme macchina organizzativa, che, con i suoi 2.700.000 biglietti venduti per le 53.000 repliche in 24 giorni di 3400 spettacoli in 300 location diverse, ha ormai fatto passare in secondo piano l’International Festival, rimasto invece ancorato a poche proposte teatrali classiche (quest’anno da sottolineare “The Divide”, la nuova pièce di Alan Ayckbourn, che lascia il terreno della commedia per un’ambientazione sci-fi).

Suddiviso in varie sezioni (dalla musica alla stand-up comedy, dal musical al teatro alle esibizioni circensi e di strada), il Fringe Festival di Edimburgo è il maggior concentrato di arte performativa esistente al mondo, in grado di triplicare, fra artisti e turisti interessati, la popolazione della placida Edimburgo.

L’approccio della charity che lo organizza, la Fringe Society, è ovviamente molto cambiato rispetto all’anarchia delle origini, e si configura come un affitto spazi in cui le compagnie condividono con le location oneri e onori.

In questo modo, la Fringe Society salva lo spirito originario di apertura totale a qualsiasi proposta artistica, delegando l’onere della scelta alle location stesse. Alcune di esse hanno dimensioni e diramazioni impressionanti, in grado di decretare il successo di un artista o di uno show per gli anni a venire, corroborate anche da un impatto mediatico, sia televisivo sia sotto forma di critica teatrale, di altissimo livello.

Avere una recensione del proprio spettacolo durante il Fringe è un obiettivo importante, dato il numero di potenziali “concorrenti”. E le sospirate stellette (metodo di votazione condiviso, da 1 a 5) sono un segno di attenzione che ogni artista fa di tutto per ottenere. Fatalmente, però, il critico deve scegliere.

È quello che abbiamo fatto noi, quasi unici rappresentanti italiani fra gli accreditati stampa, nei pochi giorni di permanenza a Edimburgo.

Ecco un breve resoconto, spettacolo per spettacolo (con le relative stellette, per restare nei ranghi!)

Borders (5 stelle)

  Un duo di attori perfettamente affiatato, una scenografia fatta di due sgabelli alti, luci che cambiano in base ai pochi spostamenti, per un testo che analizza con lucidità lo iato fra il benessere occidentale e la disperazione di chi scappa da una guerra in Siria.

L’antiretorica della scrittura e della messa in scena sono sorprendenti: con una materia così incandescente l’autore Henry Naylor (non nuovo a simili tematiche, avendo scritto una trilogia, significativamente chiamata Arabian Nightmares, il cui ultimo titolo, Angel, ebbe un mese intero di sold out al Fringe dello scorso anno) sa incredibilmente strappare più di una risata, e nel contempo emozionare con grande intensità.

DeLorean (4 stelle)

  Dietro al nome della macchina di Ritorno al futuro c’è una storia incredibile, fatta di genio imprenditoriale, affarismo e sventatezza. La vicenda di John DeLorean non è tanto lontana da quella di Preston Tucker, narrata da Coppola nell’omonimo film.

Con la differenza che siamo negli anni ’70 e che ci sono di mezzo fiumi di soldi pubblici inglesi e narcotrafficanti di Miami. Jon Ivay, navigato drammaturgo e regista britannico, ha prodotto uno show dal taglio ultraclassico, con ambientazioni che cambiano al variare dei movimenti in scena, una precisione formale degna di Mamet e un cast in gran forma.

Sylvia Plath, your words are just dust (3 stelle)

  Approcciarsi a una materia magmatica come la vita della Plath, poetessa americana icona del femminismo, morta suicida nel 1963, è sintomo di grande coraggio.

Alice Sylvester, attrice-drammaturga-regista, ha scelto di provarci, impersonificando la disperazione di una donna che vuole realizzarsi in un mondo di squali maschi. Sono 60 minuti di monologo svolto con intensità e forza, anche interpretativa, ma forse con troppo narcisismo, che fanno passare la protagonista un po’ troppo facilmente dalla tragedia al racconto fine a se stesso.

Revolution (4 stelle)

  Rolando Macrini, compositore e regista teatrale con un curriculum internazionale nonché direttore artistico del Teatro Eliocentrico di Viterbo, porta in scena questa sua surreale visione dei rapporti tra rivoluzione e dittatura.

E si affida per questo all’attore Manuele Morgese, che in un misto di inglese e napoletano stretto conduce lo spettatore nella spietatezza della realtà post-rivoluzionaria. È un teatro “povero” alla Grotowski, che si affida al gesto e al corpo più che alla parola, creando una partitura di azioni supportata dalla musica inquietante composta per l’occasione da Macrini. Un teatro disturbante, alieno ai compromessi, sperimentale e quindi passibile di miglioramenti, ma in ogni caso estremamente affascinante. E dal respiro dichiaratamente internazionale.

One-man Apocalypse Now (3 stelle)

  Si può creare uno spettacolo in cui un unico attore, in poco meno di 60 minuti, riesce a recitare, nel vero senso della parola, un’opera fluviale come l’Apocalypse Now di Coppola? Chris Davis lo ha ritenuto possibile, e si è messo alla prova.

Il risultato è un divertissement a volte raffinato (soprattutto nella capacità di ricreare le voci originali), più spesso di grana grossa, in cui inevitabilmente però si viene coinvolti, ridendo delle disgrazie dell’attore demiurgo. Con un calibro più preciso, potrebbe perfino diventare un piccolo capolavoro; così com’è, è poco di più di un’ora di svago intelligente.

Mairi Campbell: Pulse (2 stellette)

  Difficile parlare di un simile spettacolo. La capacità virtuosistica della violinista Mairi Campbell, in grado di trasportare ogni spettatore dalle colline brumose delle isole scozzesi ai meandri inascoltabili dell’anima, cozza in modo insanabile con un racconto posticcio e banale, sorta di autobiografia con cui l’artista racconta il suo approccio alla musica. Purtroppo quel che resta è meno della somma delle due parti, e si torna a casa con la spiacevole sensazione di avere assistito a un’occasione mancata.

The rape of Artemisia Gentileschi (1 stelletta)

  La vicenda è nota: Artemisia Gentileschi, grande pittrice barocca, fu brutalmente violentata a soli 18 anni, e dopo la denuncia della violenza subita fu sottoposta a umiliazioni e torture fisiche che quasi le impedirono di proseguire a dipingere. È forse il primo caso al mondo di processo per stupro, ma, anziché concentrarsi su di esso, la drammaturga e regista Joan Greening preferisce propinarci un immaginario incontro, dopo 45 anni, fra Artemisia e la sua ex-amica Tuzia, che rievocano la violenza con dialoghi retorici e una regia didascalica.

Non basta la buona volontà delle due attrici per far cambiare direzione a uno spettacolo sbagliato sia nelle intenzioni che nella messa in scena.

How to act (4 stellette)

  A una masterclass teatrale, tenuta da un importante regista inglese, si presenta una giovanissima ragazza di colore, emozionata per essere al cospetto di una tale autorità.

Ecco il contorno di questo bruciante atto unico, il cui centro sono in realtà le brutalità inferte dalla civiltà occidentale al suolo e alla popolazione africana. Quel “come recitare” presente nel titolo riguarda infatti non tanto l’hic et nunc della masterclass, quanto la capacità, molto britannica, di mettere la polvere sotto un immaginario tappeto e la necessità di dare un senso alla parola “empatia”; qui il testo di Graham Eatough (anche regista dello show) attua una svolta sorprendente, facendo scambiare i ruoli di vittima e carnefice, in un gioco al massacro forse, a volte, didascalico, ma con una potenza che sconcerta e lascia l’amaro in bocca.

Luca Cupani: It’s me (3 stellette)

Luca è un emiliano residente a Londra da anni. Lì si è fatto strada nel difficile mondo della stand-up comedy, approdando più volte al Fringe (dove negli anni passati ha vinto premi prestigiosi).

Col suo umorismo tragi-comico, tipicamente british, Luca narra anche in questo nuovo show tematiche molto personali, come da copione comedian, alternandosi fra problemi di emigrato, episodi quasi boccacceschi e tragedie familiari. C’è la stoffa del campione, ma quell’inglese un po’ strascicato, pieno di subordinate tipicamente italiche, che normalmente è un suo punto di forza, stavolta è un limite alla condivisione di un testo che avrebbe bisogno di ulteriori aggiustamenti per sfornare le risate in serie che, in passato, ci aveva regalato.

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