Syria calling. Intervista ad Antonella Appiano

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SYRIA CALLING, INTERVISTA AD ANTONELLA APPIANO

Giornalista, scrittrice e conduttrice televisiva, Antonella Appiano da molti anni è una studiosa di cultura e società mediorientale.

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Come reporter ha seguito l’inizio delle rivolte siriane e il loro evolversi in guerra civile e in proxy war, dalla Siria e da altri Paesi arabi e del Golfo; l’Egitto durante la presidenza di Mohammed Morsi. E’stata nel Kursistan iracheno, per raccogliere le testimonianze degli sfollati e dei Peshmerga iracheni, dopo la conquista di Mosul da parte dell’Isis (collaborando con vari media, fra cui, Lettera43, Il Mattino, Radio24, l’Espresso e il quotidiano on-line L’Indro)

Ha lavorato come giornalista televisiva per le Reti Mediaset con il ruolo d’inviata e conduttrice di programmi e speciali.

Nel novembre 2011, pubblica “Clandestina a Damasco- Cronache di un Paese sull’orlo della guerra civile “, (Castelvecchi), reportage del suo soggiorno in Siria come giornalista sotto copertura durante le rivolte contro il regime di Bashar al-Assad.

Syria calling

Syria callingIl suo libro Syria calling  (Quintadicopertina) esce in una nuova edizione aggiornata al marzo 2016 e racconta la Siria dal 2011 ad oggi, attraverso le esperienza personali dell’autrice vissute nei luoghi di guerra. Il libro è pubblicato in ebook perché ha una caratteristica interattiva con fotografie, glossari schede di approfondimento che permettono di navigare il testo e muoversi tra il racconto, insieme alle nuove mappe della Siria e del Medio Oriente.

Un racconto vissuto dall’interno, attraverso la realtà quotidiana che è fatta di amicizie, rapporti e meraviglie distrutte.

Tu vivi buona parte dell’anno in Oman. Com’è la percezione del problema Isis in Medio Oriente?

Nel Sultanato di Oman, dove appunto vivo e lavoro, se ne parla molto. C’è la consapevolezza del pericolo, ma anche quella che il Sultanato ha sempre lottato contro il jihadismo e l’estremismo. Stato Islamico (IS) a parte, dato che il Paese confina a sud ovest con lo Yemen, il Sultano Qaboos bin Al-Sa’id, ha sempre tenuto alto lo stato di l’allerta: infatti molte cellule affiliate ad al-Qaida sono da tempo attive in Yemen. E gli Omaniti sanno (i dati sono stati confermati dal Rapporto del Washington Institute for the Near East Policy) che il Sultanato non ha mai foraggiato lo Stato Islamico con donazioni di personalità abbienti o organizzazioni a carattere religioso (come invece hanno fatto invece l’Arabia Saudita, il Qatar, il Kuwait e, in misura minore, gli Emirati Arabi Uniti). Altri elementi importanti.

L’Oman ha creato una Task Force per la lotta al riciclaggio e una contro il Finanziamento al Terrorismo. Insomma dal Paese non è partito un solo dollaro per sostenere lo Stato Islamico e nessun foreign fighter per unirsi alle milizie del Califfato. L’Oman è a maggioranza ibadita, un ramo dell’Islam né sunnita né sciita, detto quindi anche la “terza via”. L’Ibadismo si basa sui principi della opposizione a conflitti e violenze e sulla tolleranza religiosa. Nel Sultanato si respira un’aria diversa da quella  degli altri Paesi del Golfo. Di grande apertura, di convivenza fruttuosa fra culture e religioni differenti.

Nel tuo libro segui la trasformazione dei luoghi di guerra negli ultimi anni. Quale delle città che hai preso in analisi ti ha colpito di più nei suoi passaggi drammatici?

Syria Calling è il reportage dei mie viaggi e dei mei soggiorni in diversi Paesi del Medio Oriente e del Golfo, dal 2011 a oggi. Sono stata in territori di “guerra e di pace” o di “crisi”, raccogliendo testimonianze, esperienze  e collezionando storie. «Viaggiare è essere infedeli. Siatelo senza rimorsi.

Dimenticate i vostri amici per degli sconosciuti

scriveva Paul Morand.

Credo quindi che chiunque si occupi di Medio Oriente e di Islam (a qualsiasi titolo, studioso, analista, giornalista) debba vivere almeno parte dell’anno nei Paesi arabo-musulmani o musulmani. E’ importante respirare l’aria del luogo, mescolarsi con la gente. Capire le preoccupazioni, le speranze, gli interessi. A volte le paure. E soprattutto le tragedie che certe popolazioni vivono nella vita di tutti i giorni. Solo l’empatia profonda ti permette di rimanere “connesso”. Solo ricordando che i numeri delle statistiche non sono numeri ma persone in carne ed ossa.

Naturalmente il Paese che mi ha colpito di più e continua a farlo, è la Siria. In questo caso, devo dire Paese, perché la guerra ha coinvolto tutte le città, anche Damasco. A Masqat, ogni tanto, nel suq delle spezie di Matrah  respirando l’aria carica di profumo, un miscuglio di cardamomo, cannella, polvere di cumino, zafferano, mi sembra di essere in quello di Damasco o di Aleppo (ormai distrutto).

Il cambiamento del Cairo

Anche il cambiamento del Cairo mi ha colpita. Era la “città che non dormiva mai”, ma durante gli ultimi mesi della Presidenza del deposto Presidente Morsi, prima del Colpo di Stato del Generale Abdel Fattah al-Sisi del 3 luglio 2013, avevo assistito a fatti inquietanti che indicavano la preparazione di un Golpe.

Per esempio, il 22 marzo del 2013, aveva visto la polizia assistere senza intervenire alle violenze fra sostenitori e oppositori dei Fratelli Musulmani, davanti alla sede principale del braccio politico della Fratellanza, il Partito Libertà e Giustizia, nel quartiere di Moqattam. E dopo il Golpe ho raccolto le terribili testimonianze di degli scampati alla strage di Rabaa, del 14 agosto 2013. Come quella di  Omar un giovane amico è sopravvissuto, pur se molto segnato, dopo un duro periodo in carcere.

Sotto la presidenza di Abdel Fattah al-Sisi, -ex generale e membro del Consiglio supremo delle Forze armate eletto, con un voto boicottato dalla maggioranza degli egiziani, il 27 maggio 2014 – in Egitto, si vive ormai in una condizione di completo controllo politico, sociale e di dura repressione. Ma i Media italiani se ne sono “accorti” dopo l’uccisione da parte dei servizi segreti egiziani, del giovane ricercatore italiano Giulio Regeni.

In questi anni hai avuto modo di vivere i due aspetti contrastanti del Medio Oriente: da una parte la guerra e la devastazione e dall’altra la cultura e la tradizione intellettuale. Come hai vissuto queste contraddizioni?

Cercando di mantenere la lucidità e il distacco necessari per continuare a veder ed analizzare  entrambi gli aspetti.  Ricordando che niente è statico e che è necessario fare un continuo sforzo di aggiornamento, riconsiderando le variabili. Spostando le pedine, come nel gioco degli scacchi.

Ma a volte non è facile. A Masqat  esistono un’intensa vita culturale, una storia e tradizioni antiche. C’è il Royal Opera House; mostre di giovani artisti,; un vivace scambio intellettuale. Assisto magari all’opening di una bella mostra fotografica a Bait al Zubair, partecipo a un dibattito interessante sulla condizione femminile e dopo qualche giorno ricevo una mail della mia amica Fatima che è ancora a Damasco. Mi sembra di sentire le sua voce stanca fra le righe. Anche se vivo in un Paese stabile le immagini di violenza e distruzione sono sempre vive. E anche le sensazioni di odio, paura, voglia di vendetta, crudeltà che ho respirato in tanti Paesi in guerra.

La realtà è anche contraddizione e ognuno la vede in maniera diversa. Ormai troppi non riescono a scindere i Paesi del Medio Oriente dalle immagini di brutalità che purtroppo sono arrivate e arrivano dalla Siria, l’Iraq, la Libia, l’Egitto. Eppure in ognuno di questi Paesi, ed è meraviglioso, ogni giorno c’è gente che si esprime attraverso forme artistiche, che combatte in maniera “creativa” e “culturale”, Penso ancora alla Siria dove mentre si continua a combattere, civili coraggiosi lottano per proteggere il loro patrimonio artistico gravemente danneggiato, rischiando la vita per opporsi alle distruzioni delle milizie dello Stato Islamico.

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