Anastasia Astolfi e Monica Guazzini: Le due donne di provincia non sono così distanti da molte donne comuni

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Aver assistito allo spettacolo “Due donne di provincia”, andato in scena al Teatro Furio Camillo di Roma, lo scorso ottobre, ha smosso in noi delle riflessioni immediate.

Il testo di Dacia Maraini, infatti, risulta molto attuale, e ha davvero saputo emozionarci e farci comprendere qualcosa in più riguardo l’universo femminile.

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L’analisi oculata delle due attrici prende per mano il pubblico spingendolo oltre quei confini che appartengono agli stati d’animo, alle scelte, alle insicurezze, ai sentimenti e a quegli adattamenti nei quali le donne, purtroppo, a volte si adagiano.

Varcare quindi la soglia che può portare al cambiamento, significa avere coraggio. Ma, al contrario, vivere la situazione in cui si è, diventa una sorta di apparente tranquillità e di protezione, ed uscirne richiede forza.

Anastasia Astolfi e Monica Guazzini hanno ben contestualizzato questo tipo di situazioni, dalle quali, per non autocondannare il proprio status si prova a riconciliarsi con il proprio “essere donna”.

Il testo di Dacia Maraini “Due donne di provincia” è alquanto significativo. Oltre ad evidenziare l’importanza della dignità femminile, ne sottolinea gli affetti malati. Quanto è stato difficile per voi calarsi nelle due parti?

Anastasia Astolfi : Molto impegnativo, ma non difficile. Chi fa questo lavoro è abituato a guardare e ad ascoltare. E io, personalmente, prima di cominciare la costruzione di un personaggio, parto dalla vita, dai ricordi, dagli incontri fatti, dalle esperienze accumulate. Le due donne di provincia non sono così distanti da molte donne che ho avuto modo di incrociare sul mio cammino.

Monica Guazzini : Ribadisco le parole di Anastasia, cioè impegnativo, molto, ma non difficile. Per ragioni familiari, culturali, etc, ci sono donne che spesso non sviluppano autostima e mettono in atto una sorta di annullamento personale che le porta poi ad essere parte di un “gioco” viziato.

L’autrice ha scritto l’opera nel 1973. Risulta tuttora realitstica, mettendo due donne a confronto, le quali rinunciano ad un sentimento. Perché dunque ritornare alle solite abitudini ed accontentarsi, non liberando la vera anima all’amore?

MG : Il mio personaggio, forse più dell’altro, si spinge verso quel limite che magari potrebbe liberarla o comunque donarle una parte di sé, ma non lo fa. E’ come vedere per la prima volta il mare ma non riuscire a buttarsi per paura di annegare.

AA : Credo che il mio personaggio abbia imparato l’amore come una forma di sottomissione, quasi un bisbiglio che non deve disturbare l’altro. E’ una donna estremamente insicura che non è riuscita, probabilmente, ad amare per prima se stessa.

Vincono ancora gli stereotipi?

AA : Vinceranno finché non impareremo a riconoscerli, finché non ci impegneremo a dimostrare il contrario. E’ una lotta continua, sottile, che trova spesso la sua casa nel linguaggio usato dalle stesse donne.

La poesia è davvero un’arma potente e la Maraini la usa con maestria. Quanto per voi sono importanti le liriche? In che modo possono sovvertire/rivoluzionare il sistema?

MG : Mi piace pensare che l’arte in genere possa cambiare il mondo o comunque darne una visione più ampia, positiva, di speranza. Anche nel dolore, nella sofferenza.

Come andrebbero usate, oggi giorno, le parole?

AA : Credo che le parole andrebbero soprattutto ascoltate. Va dato loro il tempo di entrare in noi con il loro peso, il loro suono, le loro infinite possibilità. Dacia Maraini è una donna che parla e arriva al punto. E mentre lo fa ti mostra la strada percorsa per arrivare fino a quel punto.

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