Come qualcuno che dorme con una copia di Story di Robert Mckellen sul comodino – personale Bibbia profana – questa è la categoria degli Oscar in cui il mio investimento emotivo è maggiore.
Avvertenza: vi aspettano settemila battute di opinioni.
MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE
- The Big Sick
- Get Out
- Ladybird
- La forma dell’acqua
- Tre manifesti a Ebbing, Missouri
The Big Sick
Un pakistano e la moglie, un afroamericano, una donna, un messicano e un inglese scrivono una sceneggiatura. Se la composizione etnica e di genere di questa categoria sembra l’inizio di una terribile barzelletta, è da notare che ben quattro delle cinque nomination sono (anche) commedie. La sceneggiatura infatti è la categoria-ghetto in cui l’Academy relega le commedie, troppo poco seriose per aspirare a premi come regia o recitazione (anche se quest’anno ci sono notevoli eccezioni).
A cominciare proprio dalla commedia romantica scritta dal comico pakistano naturalizzato statunitense Kumail Nanjiani (Sillicon Valley) e dalla moglie Emily Gordon.
Il semplice fatto di poter pronunciare nella stessa frase ‘commedia romantica’ e ‘candidato a un premio Oscar’ dovrebbe dimostrare l’atto miracoloso compiuto da questa pellicola nel resuscitare un genere ormai in avanzata decomposizione.
Nonostante l’impressione che potreste trarre dall’edizione italiana del titolo infatti (‘il matrimonio si può evitare… l’amore no’: voglio la testa di chi ha approvato questo abominio di sottotitolo) in questo film non c’è Katherine Heigl e con lei nessuno degli orripilanti cliché a cui il genere ci ha abituato.
Piuttosto la coppia scrive una delicata, divertente e sentita commedia che ruota tutto intorno all’amore transculturale. E prima che gridiate alla propaganda di sinistra, la storia è interamente basata sui reali avvenimenti che hanno portato al loro di matrimonio.
Se il super produttore di Hollywood Judd Apatow infatti li ha tormentati per anni con l’idea di trarre un film dalla loro storia d’amore, i coniugi si sono arresi solo una volta trovato il giusto grado di ironia con cui rivisitare vicende non sempre felici, dalle differenze culturali che li hanno quasi separati fino al coma di lei che ha rimesso tutto in prospettiva (la grande malattia del titolo).
Il risultato è un testo leggero ma pieno di cuore, di cui in questi tempi di irrigidimento delle identità culturali, di odi e recriminazioni, abbiamo bisogno.
Get Out
E sempre sull’onda delle prospettive culturali: Get Out.
Se quest’anno vince un premio è sicuramente quello di film più divisivo, quello che ha scatenato il maggior numero di minacce di morte in una sezione commenti (La La Land vs Moonlight in confronto sembrava un delicato confronto tra gentiluomini).
Da chi lo considera un pasticcio mal assembrato e offensivo (reverse racism!) a chi sostiene che mai pellicola così geniale sia apparsa su schermo cinematografica, non esiste via di mezzo.
Districandosi nel delirio di esattissime opinioni, c’è da considerare però che, anche se di poco, sembra in testa sugli altri, e i motivi dovrebbero essere evidenti anche ai detrattori: Get Out è un testo originale. Virtualmente impossibile da collocare, è una commedia horror che funge come gigantesca allegoria per discutere il concetto stesso di razza.
No, questo film non vuole dimostrare quanto siano cattivi i bianchi. No, non ti sta personalmente accusando di nulla spettatore caucasico medio, quindi smetti di stare sulla difensiva.
È piuttosto un’intelligente dissertazione delle concezioni culturali, sociali e biologiche che come società e come individui abbiano costruito dell’idea di razza (anche la sola idea, scientificamente confutata, che qualcosa come la razza esista).
E Jordan Peele, al suo debutto alla scrittura e alla regia, lo fa partendo da un assunto semplice ma geniale: far sperimentare allo spettatore la sensazione di disagio che lui prova quando è l’unico nero nella stanza.
Lady Bird
Un altro debutto alla scrittura e alla regia acclamatissimo è quello di Greta Gerwig con il suo Lady Bird. Non fingerò di avere neanche l’apparenza di oggettività: tutto in questo film sembra essere stato pensato per piacermi.
È il film che non sapevo di aver voluto per tutta l’adolescenza, mentre mi identificavo a forza con ogni protagonista maschile di ogni film di formazione. Ma il merito di Lady Bird non è di essere un coming of age al femminile (Dio ce ne scampi), quanto piuttosto quello di essere la summa e insieme il superamento del centinaio di coming of age indie movie che hai già visto.
La bellezza del testo è quella di puntare su due aspetti dell’adolescenza spesso trattati con superficialità da film del genere – il rapporto genitore-figlio e quello con la propria città natale – e sono queste due componenti a universalizzare il racconto, perché anche se non siamo tutti stati delle diciassettenni a Sacramento, tutti possiamo empatizzare con il tema complicato e pieno di freudiani traumi del proprio rapporto con le origini.
La forza del testo non è narrativa – non aggiungendo effettivamente niente al genere – quanto emotiva. Gerwig è partita da un’impressionante prima stesura di trecento pagine, una bozza fatta di piccole cose, scene quotidiane, dialoghi vicini al vissuto e poi nel corso di cinque anni ne ha distillato un film dalla potenza emotiva straordinaria.
Piangerete senza sapere il perché e poi farete un colpo di telefono a mamma.
La forma dell’acqua
Guillermo Del Toro invece potrebbe aver scritto il film della sua carriera, che domina questi Oscar con ben 13 nomination.
In un certo senso sembra che i lavori precedenti siano stati una palestra d’allenamento per questo, una straordinaria favola per adulti che nel fare incontrare i due mondi – quello infantile e quello adulto – crea un linguaggio narrativo, visivo e immaginifico potente.
In particolare torna il motivo del mostro, così caro a Del Toro, che dà vita a questo film con la volontà di dare un finale diverso a ‘Il mostro della Laguna Nera’, visione che nell’infanzia aveva profondamente influenzato il regista, desiderando fin da bambino un happy ending per il mostro, l’incompreso, l’additato.
E la recente accusa di plagio dalla commedia del 1969 ‘Let hear you wishper’ è a malapena una minaccia per il futuro successo di Del Toro. Non solo perché quasi indimostrabile, ma soprattutto perché parlare di plagio in narrativa oggi è spesso ridicolo: ogni storia è già stata scritta, noi facciamo solo riadattamenti.
Tre Manifesti a Ebbing
A chiudere la categoria c’è poi il preferito dalla critica, Tre Manifesti a Ebbing, Missouri.
La commedia nera di Martin McDormand ha ricevuto molte lodi soprattutto per la sua scrittura: tagliente, intelligente, non convenzionale; dove la rabbia e la violenza la fanno la padrona su ogni interazione, ogni azione, ogni personaggio, creando un universo fatto di regole sociali tutte sue.
L’imprevedibilità del testo però è stata anche la sua caratteristica più discussa: il terzo atto è geniale o pigro? Tre manifesti aggira ogni formula di scrittura in esistenza e così facendo spiazza gli spettatori, alcuni in positivo altri in negativo.