Tempo di Chet. Sul palco del Rossetti di Trieste la storia del maledetto Chet Baker rivive in uno spettacolo teatrale di Leo Muscato e Laura Perini impreziosito dalle gemme che escono dalla tromba di Paolo Fresu, autore delle musiche originali.

Chiariamo subito un punto. Tempo di Chet – La versione di Chet Baker non è un concerto di jazz. E’ uno spettacolo teatrale a tutto tondo con la colonna sonora suonata dal vivo da Paolo Fresu alla tromba ed al filicorno, Dino Rubino al piano e Marco Bardoscia al contrabbasso.

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Chet Baker ed i suoi demoni

Nato nel 1929 in Oklaoma, il giovane Chesney “Chet” Henry Baker fu avviato alla musica dal padre, chitarrista finché la Grande Depressione non l’ha costretto a cercarsi un lavoro più remunerativo. Ma la passione per la musica non l’ha mai abbandonato ed è riuscito a trasmetterla al giovane Chet che inizia già ai tempi della scuola a vincere premi.

E’ un istintivo Chet, suona ad orecchio, vive la musica ancora prima di pensarla, è il suo mondo è il suo universo. Un universo che cresce tant’è che il Charlie “Bird” Parker, per inciso il miglior sassofonista della storia del jazz, lo volle al suo fianco per la tournée sulla West Coast. L’aneddoto vuole che Bird avesse fatto un’audizione per scegliere il suo trombettista a cui risposero in tanti, perché Bird era Bird e suonare con lui era un sogno. Ma appena sul palco salirono sul palco Chet, la sua tromba e la sua malinconia Bird cacciò tutti gli altri. Le audizioni finivano lì tanto non avrebbe trovato nulla di meglio.

Ma Parker non poteva essere un esempio buono per il giovane Chet considerata la sua tossicodipendenza, il suo abuso di alcool e la sua vena di follia.

Però l’essere arrivato sulla West Coast fu un bene per Chet perché conobbe Jerry Mulligan dando il via ad uno degli sviluppi più interessanti del jazz: il piano less quartet. Per la prima volta una formazione jazz suonava senza la base strumentale di un piano ma solo con Sax, Tromba, Contrabbasso e Batteria.  E’ di questo periodo arrivò il successo planetario grazie all’interpretazione di My Funny Valentine nel primo LP della band, Gerry Mulligan Quartet.

Ma anche Mulligan aveva seri problemi di droga e pure lui non rappresentò un grande esempio per Chet.

Ma la sua fama cresceva

Ormai era diventato uno migliori trombettisti della scena jazz tanto da vincere nel 1954 il premio di migliore strumentista nel sondaggio della rivista Down Beat, battendo tra gli altri anche Miles Davis, Dizzy Gillespie e l’astro nascente Clifford Brown.

All’ennesima lite con Mulligan, decise che era ora di cominciare a fare da solista e fondò il suo quartetto nel quale, oltre a suonare la tromba, cominciò anche a cantare. Questo fu probabilmente l’ultimo momento veramente felice nella vita di Chet Baker.

Nella tournée europea, e più precisamente a Parigi, qualcosa si ruppe nella delicata mente di Chet. Quello che era diventato il suo migliore amico e collaboratore, Dick Twardzik, venne trovato morto per overdose nella sua camera d’albergo.

In quel momento Chet Baker prese l’ascensore che lo portò lentamente all’inferno.

Non si riprese mai più. E se fino a quel momento si era limitato a bere e fumare qualche spinello, iniziò anche lui un rapporto intimo con l’eroina, maledetta eroina.

Tornò negli States ma la polizia lo beccò con la droga e lo mandò in carcere per 4 anni. All’uscita Chet non ne voleva proprio più sapere nulla degli Stati Uniti sentendosi messo sotto torchio dalla giustizia e decise di trasferirsi in Europa. Venne anche in Italia dove cercò di disintossicarsi. Ma si fece cacciare praticamente da tutti gli stati europei.

Nel ’66, in una situazione poco chiara ma forse legata a debiti di droga, a Chet baker spaccarono le labbra tanto da doversi fare estrarre tutti i denti. Capite bene che un trombettista in questo stato non può suonare e Chet sparì dalle scene.

Fu ritrovato da Dizzy Gillespie che lavorava ad una pompa di benzina. Dizzy lo aiutò a rimettersi in sesto e gli offrì anche i soldi per rifarsi una dentiera. Ma i denti finti non sono come quelli veri e Chet dovette fare una fatica incredibile per imparare di nuovo a suonare la sua tromba.

Tra alti e bassi, l’unico legame duraturo della sua vita fu con l’eroina fino al tragico incidente ad Amsterdam dove, il 13 maggio del 1988, fu trovato morto sul marciapiede, precipitato dalla finestra della sua camera del Prins Hendrik Hotel.

Il lungo racconto

Perdonate il lungo racconto ma serviva anche per raccontavi lo spettacolo che si articola proprio come un insieme di testimonianze dei personaggi che ho citato più un’altra nutrita schiera che servivano a completare quel mosaico complesso che è stata la vita di Chet Baker.

Guidati con eleganza da Leo Muscato, si sono avvicendati sul palco Alessandro Averone, Rufin Doh, Simone Luglio, Debora Mancini, Daniele Marmi, Mauro Parrinello, Graziano Piazza e Laura Pozone.

La suggestive scenografie sono firmate da Andrea Belli mentre gli innumerevoli costumi sono di Silvia Aymonino. Le luci di Alessandro Verazzi.

E la musica?

Eh la musica. Raccontare Chet senza un’adeguata copertura musicale sarebbe stato oltraggioso in effetti ed allora ecco planare sul palco le note uscenti dalla tromba o dal filicorno di Paolo Fresu che avvolgono gli spettatori trascinandoli nell’anima stessa di Baker.

Un’esperienza sensoriale che va oltre il semplice ascolto. La musica di Paolo Fresu e del suo trio è un racconto completo che non ha bisogno di parole. Ti prende a coltellate il cuore e ti graffia la pelle ma, malgrado ciò, sull’ultima nota vorresti che ricominciasse immediatamente.

Uno spettacolo consigliato a chi ama il jazz, a chi ama la buona musica, a chi ama il teatro ed ovviamente a chi ama Chet Baker.

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