Mercoledì 8 gennaio la stagione Prosa del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia ha ripreso dopo la pausa natalizia ed è difficile pensare a niente di meglio del capolavoro dell’argentino Mario Diament, Cita a Ciegas – Confidenze fatali, per inaugurare l’anno nuovo.

Forse l’unica eccezione può considerarsi l’allestimento della regista Andrée Ruth Shammah, che ha fatto rivivere il testo di Diament con un cast di primo livello.

Cita a ciegas racconta tante storie, forse tutte, forse solo una, cioè quella dell’ essere umano contemporaneo che non sa più ad ascoltarsi, è così abituato ad indossare una maschera che a volte non riesce più a togliersi nemmeno quando resta da solo. In questo senso è un’opera teatrale viva che mostra una profonda sapienza di ciò che muove realmente l’essere umano e che, paradossalmente, spesso viene rifuggito e trascurato.

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Ma Cita a ciegas è anche una creazione profondamente argentina, in primo luogo se si considera il punto di vista narrativo: Mario Diament è scrittore, giornalista, autore teatrale, ma soprattutto un emigrato ed esule che scrive della e sull’Argentina, sull’identità e l’isolamento dalla città in cui vive e lavora, Miami. La regista Andrée Ruth Shammah non ha esitato a trascorrere un periodo a Buenos Aires per cogliere l’atmosfera del testo, abitando in Plaza San Martín, quella stessa piazza dove Jorge Luis Borges amava riflettere seduto su una panchina.

E come non pensare ad un riferimento al grande letterato argentino quando si apre il sipario ed è proprio un importante scrittore (interpretato da Gioele Dix) ad occupare una panchina ombreggiata da lussureggianti alberi di jacaranda di Plaza San Martin? Ogni dubbio al riguardo si dissolve quando l’artista afferma di essere cieco, anzi di “non vedere”, perché la cecità è un’altra cosa, ci sono persone che vedono e ciò nonostante sono cieche… Pure Borges soffriva di un deficit visivo ereditario che si aggravò in seguito ad un incidente finché non perse completamente la vista a ottant’anni. Della sua cecità lo scrittore argentino parlò sempre nei termini di una condizione differente da quella degli altri, non necessariamente negativa o addirittura nei termini di un’opportunità:

Di tutte le cose che mi sono successe credo l’essere rimasto cieco sia la meno importante…. Uno scrittore, o ogni uomo, deve considerare ciò che gli succede come uno strumento; tutte le cose  gli sono state date per uno scopo e ciò dev’essere più forte nel caso di un artista. Tutto ciò che succede, addirittura le umiliazioni, gli imbarazzi, le disavventure, tutto gli viene dato come se fosse argilla, come del materiale per la sua arte; deve cogliere l’occasione.

Lo scrittore senza nome di Cita a ciegas aderisce a questa “lettura” della cecità e, trovandosi proprio in un crocevia di destini, ascolta e stimola il racconto delle storie di coloro che si siedono sulla panchina accanto a lui. Un bancario cinquantenne che vuole evadere dalla ripetitività asfissiante della propria vita e preda di una passione proibita, una giovane scultrice disincantata riguardo all’ amore, una donna matura che riconosce di non aver mai amato suo marito…. Tutti e tre  (ma forse anche quattro…o cinque!) coinvolti all’interno di una rete di relazioni complesse ma sommamente interessanti che è lo scrittore a dipanare davanti ai nostri occhi con le sue domande, che poco di discostano da quelle che potrebbe porre una psicologa…

Ciò che ne viene fuori è una sinfonia di appuntamenti mancati con la felicità, un valzer malinconico di anime arrivate fuori tempo massimo che cercano un riscatto e si azzuffano con il proprio destino. E forse qualcuno ha sentito l’eco dello scrittore argentino Julio Cortázar che già aveva colto la bellezza un po’ amara di questi incontri mancati nel suo ultimo libro di racconti, “Disincontri” (Deshoras): “Assurdo che adesso voglia raccontare qualcosa che non fui capace di riconoscere mentre stava accadendo” afferma il narratore di “Diario per un racconto ”. Per quanto assurdo i personaggi di Cita a ciegas non smettono di farlo, che ad ascoltarli ci sia uno scrittore o una psicologa, l’unico modo per capirsi è raccontarsi un’altra volta e una ancora, chi lo sa, magari ne esce fuori qualcosa, una sorpresa…

La traduzione, adattamento e regia di Andrée Ruth Shammah del testo di Mario Diament ha portato sul palco un’ opera brillante, viva, di una consapevolezza profonda delle corde più delicate dell’essere umano, con un cast assolutamente all’altezza della complessità dei ruoli assegnati. Da segnalare l’interpretazione Gioele Dix, che nel 2015 già aveva collaborato con Andrée Ruth Shammah per Il malato immaginario di Moliére, bravissimo come cieco, ma soprattutto quella di Laura Marinoni, che compare sul palco come il rombo di un tuono, sublime nella parte di madre e moglie frustrata, fredda e scontrosa, eppure così piena di forza e così pienamente umana.

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