Debutta in Italia al teatro dell’Opera di Roma, lo storico allestimento di Evgenij Onegin di Pëtr Il’ič Čajkovskij, creato da Robert Carsen nel 1997 per il Metropolitan Opera di New York. Nonostante siano passati vent’anni, lo spettacolo profuma ancora di attualità nella sua stilizzata eleganza, poiché la regia di Carsen ha distillato il meglio dell’intimistica sofferenza dei personaggi, proprio come il compositore e Konstantin Šilovskij fecero nella stesura del libretto tratto dall’omonimo e assai noto romanzo di Puškin.

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In uno spazio bianco e neutrale, regolare e ampio, prende corpo la vicenda biografica del giovane protagonista Evgenij Onegin, una sorta di giovane dandy ante litteram, figlio dello spirito distruttivo romantico. Le vicende drammatiche si svolgono in una dimensione quasi metafisica cui pochi dettagli dalle linee pure e dai colori tenui danno una connotazione storica. Tuttavia l’impressione resta quella di un ricordo, di una rievocazione malinconica e parziale che è colmata dalle armonie e dai colori orchestrali. Allora i dettagli di ogni scena e gli abiti concepiti da Michael Levine assurgono a elementi fortemente connotativi di una storicità che, di fatto, si intuisce anche da due elementi testuali e drammaturgici: il duello e l’ideale matrimoniale.

È fra questi due poli, o meglio nel conflitto fra le due polarità dell’ideale matrimoniale (maschile e femminile) e nella rottura dello status quo generata dal duello, che si snodano le sette scene dell’opera. Infatti i temi trattati ruotano attorno al contrasto fra felicità e abitudine matrimoniale, viste da punti di vista diversi e, spesso, opposti. Così questo filo conduttore resta il medesimo persino al finale, in cui si assiste a un rovesciamento di scelte: Tat’jana predilige la fedeltà alla passione, secondo gli insegnamenti materni così chiaramente presentati nella scena di apertura. A differenza di Larina, però, la giovane ha compiuto la sua ascesa sociale, arrivando a sposare una figura di spicco vicina alla corte degli Zar. Se accettiamo il punto di vista borghese di quest’opera non possiamo non notare che di matrimonio si parla e si ragiona sempre: Larina e la Balia al principio, poi Olga e Lenskij, Tat’jana e Onegin, infine il coro che prelude al rovesciamento sociale di tale visione, attuato nella grande scena del ballo del principe, in cui anche lì il centro resta l’amore e la felicità coniugale, sfortunatamente, non sempre considerati come facce della medesima medaglia.

Carsen riesce a dare continuità e coerenza alla sua opera attraverso le suggestioni scenografiche, l’ampliamento e la suddivisione dello spazio scenico e una generale impressione di dramma storico, sospeso fra “Via col vento” e “Il Gattopardo”. Non a caso questi romanzi hanno in comune con Onegin l’idea del passaggio da un’epoca a un’altra, da una stagione della vita a un’altra. Carsen evita così anche il rischio di una ripetizione estetica fra due scene simili di ballo (II, 1 e III, 1), inserendo la prima in un contesto più schiettamente provinciale, con lo spazio ristretto e delimitato dalle sedie, abiti dai colori sgargianti, con stoffe e tagli più semplici, e ammantando la seconda di un fascino vellutato e traslucido, come suggeriscono le sontuose crinoline e le divise di gala, e sfruttando in più  lo spazio scenico del grande palco del Costanzi a sua disposizione.

Per le luci di Jean Kalman va menzionata in particolare la suggestiva scena del duello, che risulta immersa quasi completamente in un International Klein Blue di stupefacente aderenza all’azione scenica, svolta verosimilmente prima del sorgere del sole. 

Le coreografie di Serge Bennathan hanno il pregio di rievocare il divertito affollamento dei saloni in occasione dei balli più attesi, sfruttando lo spazio a disposizione che, dall’inizio dell’opera, si allarga sempre più verso i confini scenici a simboleggiare un passaggio temporale ed emotivo di Onegin e di Tat’jana, fino a tornare a restringersi nel finale, dove la luce isola e delimita la solitudine dell’anima di Tat’jana immersa nel bianco vuoto attorno a lei.

James Conlon dirige la compagine orchestrale con cura del dettaglio, tanto da lasciar trasparire al meglio il lavoro minuzioso, personale e profondamente sincero che il compositore ha trasferito in questa musica. Non si tratta infatti di una commissione da parte di un grande teatro, ma di un’opera nata dall’esigenza di raccontare gli stati d’animo di personaggi borghesi, né eroici né fantastici. Un’opera che ebbe all’inizio un’accoglienza modesta, ma che è ora fra le più acclamate e conosciute del repertorio russo.

Roberto Gabbiani, da par suo, riesce a far cantare bene il coro che è impegnato in balli, danze, movimenti scenici e quant’altro, a ricordarci che non è una semplice cornice, ma uno dei personaggi dell’azione: eco fondamentale della vitale provincia russa.

Il cast vocale è compatto, uniforme, affiatato e scenicamente perfetto. Maria Bayankina ha la bellezza, la semplicità e il candore di una Tat’jana giovanile e riesce a maturare una complessa femminilità nel III atto: lo stesso percorso che compie vocalmente, da un timbro cristallino e iridescente della scena della lettera, fino alla pienezza brunita del duetto finale, senza una titubanza, senza una esitazione che non sia volutamente drammatica. Irida Dragoti incarna una Larina ancora piacente e sfoggia uno charme da gentildonna di campagna assieme a un timbro pieno e comunicativo. Più penalizzata sul fronte timbrico è invece la balia di Anna Viktorova, mentre opulento e seducente è il canto di Yulia Matochkina, una Ol’ga non solo civetta, ma anche scenicamente misurata nei momenti più drammatici. L’Onegin di Markus Werba è un seduttore in carne ed ossa, che impiega il suo fascino con discrezione ed eleganza, le stesse doti che caratterizzano il suo approccio vocale al personaggio, chiaramente delineato, svettante in acuto e virile dove la tessitura lo richiede, come nel duetto con l’amico/rivale Lenskij, interpretato da un eccellente Saimir Pirgu. Quest’ultimo ha la dolcezza timbrica che ne idealizza l’immagine poetica e un registro acuto efficace e penetrante che coinvolge, accende gli animi. Insuperabile nella scena della sfida, malinconico e struggente nell’aria che precede il duetto del duello. Grande lezione di principesca vocalità è infine quella di John Relyea nei panni di Gremin, che ha fatto vibrare il teatro fino al loggione con i suoi gravi suggestivi.

Bravi Andrii Ganchuk e Arturo Espinosa nelle rispettive parti, ma una menzione particolare va al Triquet di Andrea Giovannini, per nulla macchiettistico, ma assai spassoso.

Evgenij Onegin

Musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij

Scene liriche in tre atti

Libretto del compositore e Konstantin Šilovskij dall’omonimo romanzo di Puškin

Direttore James Conlon

Regia Robert Carsen

MAESTRO DEL CORO Roberto Gabbiani

REGISTA COLLABORATORE Peter McClintock

SCENE E COSTUMI Michael Levine

LUCI Jean Kalman

COREOGRAFIA Serge Bennathan

PRINCIPALI INTERPRETI

LARINA Irida Dragoti**

TAT’JANA Maria Bayankina

OL’GA Yulia Matochkina

FILIPP’EVNA Anna Viktorova

EVGENIJ ONEGIN Markus Werba

VLADIMIR LENSKIJ Saimir Pirgu

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