C’è un festival che ha 38 anni di vita, ma non li dimostra. Si tiene in un minuscolo paesino fra il lago di Garda e Trento, nella cornice bucolica di una centrale idroelettrica sulle rive del Sarca che in larga parte è stata ristrutturata in sale teatrali, uffici, residenze di compagnie, sale studi e prova, e in minima parte è incredibilmente tuttora funzionante.

Gli appassionati di performing arts avranno già intuito che stiamo parlando di Drodesera, il festival che si tiene alla Centrale Fies di Dro, e che cambia titolo di anno in anno a seconda del tema portante del progetto.

In questo caso, il nome del festival 2018 è identico a quello dello scorso anno, Supercontinent, con un esponente “2” a significare non solo una seconda edizione, ma anche una moltiplicazione per se stesso.

L’idea portante è quella che noi uomini siamo su una sorta di Pangea in cui le arti si espandono, si moltiplicano e si intersecano, dando vita a prodotti intrinsecamente ibridati, e di appartenere quindi a una sola razza pulsante, quella umana, che, come è stato sottolineato in uno degli interessanti Talks pomeridiani gestiti da Francesca Serrazanetti, è l’unica razza in grado di riflettere su se stessa.

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Un incipit quanto mai di attualità visti i recenti sviluppi della vita sociale e politica del nostro Paese, cui non è casuale la risposta di alzare al quadrato la prospettiva, come per innalzare una diga nei confronti dell’intolleranza e di allargare le maglie a una omnicomprensione dei saperi collettivi.

Non è forse un caso la presenza di “Conversation without words”, una non-performance di Lotte van den Berg e Daan ‘t Sas prodotta da Third Space, in cui si esplora una tecnica di conversazione in cui la comunicazione non passa attraverso le parole, ma solo attraverso gli sguardi di persone sedute in cerchio per un tempo prestabilito che può arrivare anche alle 4 ore.

Nonostante una modalità che ricorda un po’ troppo da vicino “The artist is present” della Abramovic, si riflette in questo caso su dinamiche di gruppo che si innescano senza pregiudizio, e su modalità interpretative e cognitive inusuali, che possono mettere a disagio ma risultano sincere e non filtrate.

Il campo di ricognizione di Third Space, cioè le metodologie di comunicazione non-violenta, tocca altre tematiche forse anche più interessanti di quelle portate a Dro, e abbiamo sentito acutamente la mancanza di un momento finale, anche informale, in cui fossero portate a fattor comune le esperienze singole, ma è indubbio il fascino che una modalità espressiva così inconsueta suscita, se ci si lascia andare con onestà.

E non è forse un caso che lo spettacolo che più ci ha toccato sia stato “By heart”, di Tiago Rodrigues, direttore artistico del Teatro Nacional di Lisbona.

Con una modalità fintamente sdrammatizzante, Rodrigues porta in scena 10 spettatori, e li aiuta a imparare a memoria (“by heart”, appunto) un sonetto di Shakespeare, la cui recita sarà il termine della performance.

Ma in mezzo c’è l’importanza della memoria e del racconto, l’identità di esseri umani che si tramandano di generazione in generazione quei valori che nessuna dittatura, anche se brutale, può distruggere.

Ci sono Bradbury e Truffaut, Pasternak e Steiner, i campi di concentramento e i ricordi personali, in un alternarsi di idee e citazioni che creano un flusso in cui si è immersi per 2 ore piene, e che esplode in un finale drammaturgicamente perfetto che porta, inevitabilmente, alla commozione.

Altrettanto potente, nell’argomento-base dello spettacolo, è “Overload”, del collettivo di ricerca teatrale fiorentino Sotterraneo, residente a Centrale Fies.

La riflessione è sul deficit d’attenzione visto come effetto collaterale dell’uso massiccio delle nuove tecnologie, in specie i social network.

La drammaturgia è bizzarra e interessante, dato che un fluviale intervento del defunto scrittore statunitense David Foster Wallace viene di continuo interrotto da mini-performance di personaggi assurdi, fra cui un emblematico uomo-pesce che silenziosamente si appropria del centro della scena.

Quel che rende il tutto ancor più intrigante è il fatto che le interruzioni sono una scelta lasciata agli spettatori, che quindi diventano arbitro dell’intera performance, creando un corto circuito lessicale in cui non si capisce chi fa cosa e il ruolo dell’intellettuale (non solo lo scrittore che viene ripetutamente interrotto, ma per estensione l’artista in ogni sua forma) scade a quello di semplice intrattenitore e imbonitore da fiera, cui si risponde o con applausi o con lanci di verdure.

Un finale quasi brechtiano, poco in linea con la vitalità e la linearità viste in precedenza, non toglie comunque il fascino a una costruzione complessa cui i giovani attori regalano energia e dinamismo.

Altrettanta energia, e altrettante tematiche inclusive, si notano in “If if if then” di Jacopo Jenna, una coreografia di pura danza ballata da Nawel Babou Bonar, Sly e Andrea Dionisi e  contrappuntata dalle splendide note create dal vivo da Caterina Barbieri.

In un tripudio di mosse atletiche quasi estreme, i tre ballerini partono da 3 punti vicini nello spazio, si distanziano e poi ritornano a unirsi in una figura proteiforme, in grado di simboleggiare un punto d’incontro delle diversità, che sono peraltro evidenti anche nelle diverse espressioni corporee e somatiche  dei danzatori. L’unione dei corpi perde ogni ritualità erotica, per assumere sembianza terribilmente, e necessariamente, umana.

La strada è identica anche per Halory Goerger e Antoine Defoort, che in “Germinal” mostrano l’evoluzione della specie umana in un susseguirsi di divertenti quadri espressivi che partono dalla creazione di un linguaggio comune e arrivano fino alla riflessione sullo sviluppo delle tecnologie.

Con incredibile velocità vengono presentati, e messi in discussione, migliaia di anni di evoluzione scientifica, con il pregio di non essere mai né didascalici né moralistici. E i riquadri iniziali, in cui si impara a comunicare creando una decodificazione di simboli in grado di essere percepita similmente da tutti, sono quanto di più simile si sia mai visto alla messa in scena delle idee e dei lavori del filosofo cognitivo Paul Watzlawick.

Molto interessante lo sforzo di Urok Shirhan in “Empty Orchestra”, in cui tenta un’indagine sui rapporti fra il suono e l’identità nazionale sovrapponendo, in un impossibile karaoke, l’inno nazionale iracheno, prima che venisse cambiato dopo la destituzione di Saddam, con quello statunitense cantato in una muta squarciagola da Beyoncè alla finale del Superbowl.

L’effetto è straniante e, a tratti, esilarante, ma il suo resta poco più di uno studio, il cui fascino intrinseco però merita di essere ampliato e ulteriormente approfondito.

Concludiamo con un volo d’uccello su opere altrettanto importanti, ma forse più fredde e meno chiaramente raggiungibili da un pubblico. Stiamo parlando ad esempio di “Unforetold”, potente riflessione sull’oscurità di Sarah Vanhee, risultato di una serie di workshop in cui sono stati coinvolti bambini in età scolare che, portati sul palco di Dro, donano verità alla performance, svolta tutta al buio, che al di là del fascino intrinseco e della capacità di penetrare archetipi favolistici e infantili, resta un po’ troppo sospesa in un compiaciuto intellettualismo; di “My shapes, your world, their grey” del coreografo tedesco Philipp Gehmacher, un breve studio sulla potenza degli oggetti in una società liquida che lascia però piuttosto perplessi proprio per mancanza di forza espressiva; di “I am within” della compagnia di danza romagnola Dewey Dell, in cui il gesto è preponderante rispetto all’intenzione; di “Avalanche” con cui Marco d’Agostin e Teresa Silva spezzano ogni gesto nella sua componente singola, senza però ricostruire un significato intellegibile.

Se, come crediamo sia vero, un festival deve essere anche (non solo, ma anche) la raccolta di quanto e come, in Italia e nel mondo, gli artisti stiano riflettendo sulla modernità e sulla realtà sociale, dobbiamo dare atto al curatore Filippo Andreatta e alla direttrice artistica Barbara Boninsegna di aver colpito nel segno.

Drodesera, nel mare magnum di rassegne i cui significati sembrano nebulosi, ha saputo compiere un piccolo miracolo: comunicare attraverso l’arte performativa, ossia una modalità espressiva molto poco pop, il disagio del qui e ora, il timore di tempi bui, ma anche la necessità di comunicare fra essere umani. Non ci sembra affatto di poco conto.

(Foto Copertina di Alessandro Sala che ringraziamo)

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