Chiunque capitasse per la prima volta a Edimburgo in un qualsiasi giorno dell’anno, e poi ci ritornasse durante il mese di agosto, avrebbe certamente uno shock: quelle che normalmente sono placide vie circondate da tetri manieri vittoriani, solcate tutt’al più da studenti che corrono per non perdere la lezione o da pochi turisti in cerca di souvenir delle Highlands o bottiglie di whisky, diventano invase da un brulicare di umanità multicolore in cerca di successo o anche solo di visibilità, e i quieti dintorni dell’università si riempiono di padiglioni in cui scorrono fiumi di birra e sogni di gloria di teatranti di ogni specie e nazione.

E’ la magia del Fringe Festival, che da 71 anni raddoppia in agosto gli abitanti della capitale scozzese, mostrando al mondo intero proposte teatrali la cui unica discriminante è il coraggio di esibirsi e la capacità di credere nel proprio progetto.

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Complicatissimo districarsi tra i più di 3200 show teatrali presenti nel catalogo (cui sono da aggiungere circa 800 fra concerti esclusivi, eventi, mostre).

Impossibile, anche per chi risiede a Edimburgo per l’intero mese, vederli tutti. Bisogna operare una dolorosa, e difficile, scelta. Per poi esibirsi nel gioco più di moda nell’agosto edimburghese: scrivere una “recensione” dello spettacolo che si è visto. Cosa che, indipendentemente dalle stellette di gradimento ottenute, significa per un performer potersi distinguere in un oceano di proposte difficilmente riconoscibili.

E’ per questo motivo che, nei pochi giorni di permanenza a Edimburgo, abbiamo scelto spettacoli non solo di produzioni conosciute, ma anche, e forse soprattutto, di performer ignoti, scelti per istinto o interesse personale. Ed ecco un breve riassunto, con le relative stellette

CRY FOR THE MOON – 3 stelle

Si narra che nel 1975 Syd Barrett entrò a Abbey Road durante la registrazione di un disco dei Pink Floyd, la sua ex band che lo aveva allontanato 6 anni prima per le sue stranezze, e che nessuno lo riconobbe. Da qui parte la scrittura di questa breve pièce, che porta in scena Roger (Waters), musicista che sta cercando un’ispirazione che non c’è più, e Syd (Barrett), specie di fantasma del passato che riappare all’improvviso senza spiegazione alcuna.

La scelta di far interpretare Syd a una donna (l’ottima Rebecca Fenwick), per sottolinearne l’irriconoscibilità, è forse lo stratagemma migliore dello spettacolo, la cui tematica ci pare invece piuttosto fragile. Ma i 50 minuti scorrono veloci, grazie a un ritmo sempre serrato, e il risultato può soddisfare non solo i fans dei Pink Floyd.

ALMA: A HUMAN VOICE – 4 stelle

Le Nina’s Drag Queen sono un collettivo milanese già piuttosto noto, che si accostano a classici cechoviani o shakesperiani reinterpretandoli alla luce della loro diversità, ma senza la faciloneria che a volte viene accomunata al mondo drag.

Portare alle 11 di mattina un monologo, dolente e introspettivo, pieno di citazioni “alte” (da Mahler a Kokoschka, dalla Magnani alla Bergman), in un Festival che spesso accosta la diversità di genere alla peggior caciara da Gay Pride, è stata una scelta coraggiosa. Ma la scommessa è stata vinta, grazie a un’interpretazione sopraffina e misurata, capace di mostrare la disillusione amorosa in maniera ironica.

ANTIGONE – 3 stelle

Non è usuale vedere al Fringe spettacoli di teatro antico. Per questo, la curiosità era alta, anche perché la proposta viene da una compagnia di attori giovanissimi, appena usciti dalla scuola.

Il testo, basandosi sul conflitto tra normativa e compassione, ha una modernità resa ancor più attuale dalla tragedia dei migranti. Ed è forse per questo che il personaggio sotto i riflettori è Creonte (qui diventato, stranamente, regina), più che Antigone. Ma il tentativo di modernizzare la tragedia riesce solo in parte, anche perché Raydun Alexander nel ruolo di Creonte letteralmente mangia la scena, e la Natalie Kelly-Antigone diventa a volte un banale rimorso di coscienza, anziché la stentorea voce della comunione umana.

Forse quel che manca è una appropriata direzione attoriale, sia nelle intenzioni che nei movimenti scenici, ma c’è da dire che l’energia della giovanissima compagnia supplisce spesso a mancanze registiche.

PROVIDENCE – 5 stelle

Lo ammetto: se mi avessero detto in anticipo che avrei riso a uno show che parla della vita di Lovecraft, non ci avrei creduto; anzi, da amante del lavoro dello scrittore di Providence, avrei anche fatto una smorfia di disgusto.

E invece no: si può ridere del re dell’horror, della sua vita sconclusionata, del suo amore per l’ignoto, perfino del suo malcelato razzismo. Ma nel fare questo, si può anche assistere alla teatralizzazione di alcuni dei suoi racconti più terrificanti, in un mix senza soluzione di continuità e sempre credibile.

Grazie a un testo ritmatissimo e ad un uso sapiente di luci e suoni, perfino uno squallido container può somigliare al cammino verso le Montagne della Follia. Questa è magia del teatro, allo stato puro.

BLINDED – 2 stelle

Il tentativo di portare in scena la schizofrenia, l’uso sconsiderato dell’elettroshock, la malattia mentale, è da sempre irto di ostacoli. Le tre ragazze di Bloombox Theatre scelgono la moltiplicazione dei linguaggi: spoken word, video, teatro danza, partecipazione del pubblico.

Il risultato è un pastiche di indubbia onestà, visto che la storia narrata si basa sulle reali vicende della nonna di una delle tre, ma che non riesce mai a diventare davvero teatro, rimanendo piuttosto un’interessante punto di vista artistico su una tragedia più personale che collettiva.

Di grande impatto, però, la rappresentazione della schizofrenia, vista attraverso un video perfettamente replicato dal vivo ma con significative differenze comportamentali.

THE TURN OF THE SCREW – 5 stelle

Di riduzioni del celebre racconto “Il giro di vite” di Henry James (da alcuni considerato il più bel romanzo breve della storia della letteratura) ce ne sono state tantissime, sia a teatro che al cinema. Ma una così coinvolgente come quella portata in scena da Antonia Christophers e Noel Byrne, fondatori della compagnia Box Tales Soup, è difficilmente immaginabile.

Attraverso un uso sapiente delle marionette (loro marchio di fabbrica) a sostituire i personaggi mancanti, un sound e light design raffinatissimi, una regia che usa lo spazio in maniera precisa, si viene introdotti un’atmosfera gotica in cui i sussulti emotivi avvengono nonostante tutto sia visibile in scena.

L’idea della messinscena è contemporaneamente raffinata e semplicissima, e magnetica è la presenza scenica dei due protagonisti. Uno show di cui ci siamo letteralmente innamorati, e che saremmo felici di rivedere anche in Italia.

LOOP – 4 stelle

Raccontare la storia di una famiglia, nonni padri e figli, e le difficoltà relazionali dei suoi componenti, attraverso l’amore per la musica, che accomuna tutti i suoi membri, nell’arco di 50 anni.

Questo il tentativo di Boxless Theatre, che usa il physical theatre, a metà strada tra la pura performance e il teatro danza, per narrare una storia universale. Forzatamente belle le musiche usate, con un interessante switch tra la versione sixties di “Tainted love” e i suoi remake del 1985 (Soft Cell) e del 2003 (Marylin Manson), coreograficamente perfetti i movimenti sul palco, forse un po’ esangue l’argomento trattato. Ma gli attori danno il massimo, e sono da segnalare soprattutto Emily Costello e Aaron Price, cioè la “generazione di mezzo”

FINDING FASSBENDER – 5 stelle

Il delicato coming-of-age di Eve, sensibile ragazza di provincia che da Wolverhampton giunge a Londra piena di entusiasmo per un ruolo lavorativo che poi scopre inesistente, e scopre per caso di abitare nello stesso appartamento occupato poco prima dal famoso attore Michael Fassbender, è una sorprendente performance di una giovane attrice di grande talento, Lydia Larson.

Capace di far vedere un personaggio, o un’intera scenografia, con pochi gesti del corpo, e abilissima anche nella scrittura di un testo che è quasi un film in miniatura. Divertente, coinvolgente e emozionante. Una sorpresa inaspettata, e quindi ancora più gradita.

INFINITA – 4 stelle

Familie Floz, ensemble berlinese con mente toscana che usa il teatro di figura in modo empaticamente partecipativo, non sono certo dei novellini.

Questa nuova creazione segue un percorso ormai ben chiaro: raccontare una storia universale (in questo caso il parallelismo tra infanzia e vecchiaia) attraverso musiche, un moderato uso del corpo, e soprattutto mascheroni di cartapesta capaci di dire tutto nella loro inespressività.

Per l’ennesima volta, l’esperimento riesce alla grande, ma lascia a volte l’amaro in bocca perché certe scene sono francamente di grana grossa, alla ricerca della lacrima facile o dell’oh di meraviglia. Ineccepibili, e grandi performer, ma da loro ci aspettiamo qualcosa di più.

LUCA CUPANI: GOD DIGGER – 4 stelle

Luca è un ottimo stand up comedian italiano di base a Londra.

E’ al suo quinto Fringe, e stavolta rischia il tutto per tutto in una venue organizzata e con un testo che va oltre le tipiche considerazioni personali da stand-up, mirando piuttosto a modernizzare, in modo ridicolizzante, certi status del cattolicesimo.

Entertainer di razza, Luca raggiunge lo scopo quando si attiene a un racconto strutturato da cui può poi essere in grado di uscire con le gag di improvvisazione tipiche di un comico. La consapevolezza del suo ruolo a volte gli sfugge di mano, ma possiamo dire che ormai il comico italiano è pronto al grande salto

MENGELE – 3 stelle

Come si può rappresentare il Male assoluto?

Difficile rispondere, ma forse le strade, almeno a teatro, sono due: o lo si banalizza, deformandolo, o lo si decostruisce, portandolo a scontrarsi con le sue contraddizioni. Purtroppo in questo caso la strada scelta è stata la prima.

Basandosi su un racconto di Philip Warham, in cui Mengele nel 1979 viene salvato dall’annegamento da una misteriosa donna con cui poi si mette a parlare, Tim Marriott (scrittore- regista e interprete principale) sceglie un registro perennemente sopra le righe, in cui la figura del dottore di Auschwitz somiglia a quella di una pazza marionetta hitleriana.

Difficile non essere d’accordo con la fine orribile che poi farà, ma forse ci possiamo permettere una riflessione più raffinata, soprattutto da un punto di vista artistico.

SEDIMENT – 4 stelle

Come “Memorie del sottosuolo”, nella sua disperante immobilità, possa ispirare uno spettacolo di Physical Theatre, resta un mistero.

Eppure c’è proprio il capolavoro di Dostoevskij alla base di questo incredibile pezzo di bravura di 2 acrobati, credibili sia come artisti circensi che come interpreti. David Carberry e Alice Muntz, della compagnia australiana Company 2, vanno oltre i limiti corporei nel racconto per passi di danza, voli letterali, e strampalata musica dal vivo, di un amore impossibile tra due individualità estranee per definizione, alla ricerca di una verità che sta sempre un passo più in là.

Strabiliante, ma forse a volte un po’ intellettualistico

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