IL GIGANTESCO ABBAGLIO DI CHRISTIANO CERASOLA

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NON SONO IL BUIO E LA LUCE CHE PERMETTONO DI VEDERE. MA IL SENSO CHE SI CREA QUANDO SI APRE UNA PORTA.

Christiano Cerasola

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Quando un gatto attraversando una strada incrocia gli abbaglianti di un’automobile, il suo istinto non è quello di fuggire, ma rimane come pietrificato e se il conducente della vettura non frena in tempo, l’animale viene travolto e spesso ucciso.

Lo stesso accade anche nella nostra esistenza, quando veniamo posti di fronte ad esperienze fatte di luce apparente ma in realtà accecanti.

Il gigantesco abbaglio” (Elmi’s world), quarto romanzo dello scrittore italo-danese Christiano Cerasola riprende un personaggio del suo libro precedente “il Musicista”, allora bambino, che qui ritroviamo adulto.

Luca, rampollo trentenne borghese incontra Sinaed, una giovanissima artista gay, grezza, talentuosa e ribelle.

Nasce un’amicizia tra i due che li porta a intraprendere un viaggio alla Kerouak attraverso l’Italia.

È un percorso pieno di bellezza e leggerezza, ma la parte oscura che ognuno si porta dentro è pronta ad uscire, con la sua luce abbagliante e deviante.

Ci saranno conseguenze e insegnamenti dolorosi, perché seguire un gigantesco abbaglio è come essere nelle sabbie mobili, più ci si muove e più si sprofonda.

Con questo libro l’autore prosegue la sua indagine sul mondo degli outsiders, tema a lui caro, e su quelle parti interiori dell’uomo che non riescono a trovare via d’uscita.

Sembra che l’essere umano sia costretto a peregrinare di esperienza in esperienza seguendo false luci o bagliori troppo forti da sopportare per apprendere le lezioni importanti della vita ma non sia in grado di smettere di cercarle, nella speranza che il nuovo porti un tempo migliore.

incipit di lettura

Succedeva ogni volta.
Mi alzavo dal letto con il solito mal di testa e vomitavo, promettevo a me stesso che non sarebbe più accaduto, ma ci ricascavo sempre.
La percezione del tempo era sfalsato, i secondi nei quali mi sembrava di essermi ripreso schizzavano impazziti e correvano veloci incontro agli attimi nei quali si ripresentavano i conati di vomito.

In quei momenti i minuti si dilatavano no a straziarmi l’anima. Per Dio.
Evitavo di guardarmi allo specchio, ma anche lì fallivo, e nonostante cercassi di dimenticarmi di me, con la coda dell’occhio mi cercavo e puntualmente mi trovavo, e non era un bel vedere, no, no, non era per nulla un bello spettacolo.

Sondavo nell’evoluzione dei miei lineamenti fuori asse delle risposte, senza mai porre le domande corrette. Nel tempo sbagliato, nel modo errato

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