Non bisogna ripetere le cose già dette. È una sbavatura estetica

ripete più volte con compostezza il personaggio dell’usuraio di Homicide House, la fiaba noir della compagnia MaMiMò andata in scena alla Fucina Culturale Machiavelli di Verona. E di fatto di sbavature estetiche questa messa in scena ne è quasi priva.

Homicide HouseLa drammaturgia, vincitrice nel 2013 del Premio Riccione Tondelli, racconta di un imprenditore che, indebitato e disperato, si ritrova trascinato in giochi macabri alla mercé di ricchi psicopatici, coinvolgendo suo malgrado in questo l’amata moglie.

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Elevandosi però dai semplici fatti di cronaca a cui la trama è ispirata, il testo ha ambizioni più alte, filosofiche.

A partire dalla caratterizzazione dei suoi personaggi, quattro archetipi figli delle inclinazioni del nostro tempo: la moglie e madre, rappresentazione dell’amore familiare; l’usuraio, simbolo dell’etica professionale; l’assassina, ricercatrice della verità a ogni costo e il nostro protagonista,  personificazione dell’utilitarismo vile.

Sul palco le quattro figure dialogano proponendo ognuno il proprio ideale, ragionando sulle tesi del testo come in una sorta di dialogo socratico. Al nucleo della questione temi importanti: se sia possibile discernere il vero dal falso e cosa il vero comporti nella vita delle persone, quale sia il suo rapporto con l’amore.

In uno dei dialoghi più riusciti dello spettacolo scopriamo che la nostra assassina infatti, interpretata brillantemente da Valeria Perdonò, uccide non per placare una folle sete di sangue, quanto piuttosto per avvicinarsi alla verità, alla conoscenza intensa e reale delle persone, un tipo di conoscenza possibile solo quando non ci si può più nascondere dietro le maschere della quotidianità, i ruoli che interpretiamo.

Se è vero che la ripetizione è una sbavatura estetica in questo caso sarebbe forse risultata necessaria, se si considera soprattutto la complessità dei temi trattati e le loro rappresentazioni simboliche sul palcoscenico.

Lo spettatore è investito da valanghe di parole, tutte ben piazzate e recitate, ma che senza la possibilità di respiro o deposito scivolano via, non lasciando la traccia che sarebbe necessarie per l’elaborazione piena degli argomenti.

In questo pesa anche la regia di Marco Maccieri che, se azzecca i toni di tensione, mette in atto i giusti cambi di luce e i giusti effetti sonori, non lascia spazio al silenzio, alla pausa, all’applauso.

In tutta questa frenesia quindi anche cose trattate possono risultare allo spettatore incompiute, perché andate perse. In particolare il finale, monco del suo monologo originale, lascia qualcosa a metà, evitando di proposito di chiudere un cerchio logico e delegando al pubblico il compito.

Pubblico che durate la rappresentazione viene, anche se mai esplicitamente, spesso chiamato in causa: i personaggi rivolgono con frequenza lo sguardo alla platea, come a cercare da un consenso popolare un appoggio alle proprie idee.

E se i movimenti sono spesso plastici, calcolati, quasi statuari, lo spazio è valorizzato da uno scenografia semplice ma efficace: una sedia, pronta all’occorrenza a diventare tutto – luogo della tortura, del dolore o della riconciliazione – e un tavolo, su cui a turno i personaggi si arrampicano, si innalzano, si impongono.

Tutti, tranne il nostro vile pigro protagonista, sballottato dagli eventi e dal volere degli altri.

Homicide House

di Emanuele Aldrovandi,
regia Marco Maccieri
con Luca Cattani, Cecilia di Donato, Marco Maccieri, Valeria Perdonò

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