Il camice bianco di Arlecchino – Intervista su teatro e scienza a Gabriele Sofia

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Mi sono imbattuto, metaforicamente parlando, nella figura di Gabriele Sofia in una fredda serata invernale, in un bar di Testaccio.  

Io, ex ricercatore universitario ero nel bel mezzo di una crisi personale perennemente in bilico tra il mio mestiere di biologo e “scienziato” e la mia passione smodata per tutto ciò che è arte e soprattutto teatro, due lavori che attualmente in Italia non hanno molte prospettive.

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Nella mia ricerca fantastica e fantasiosa di crearmi un lavoro che permettesse di coniugare due linguaggi apparentemente così diversi come la scienza e il teatro, ho incontrato “per caso” il lavoro di Gabriele. Il tutto è avvenuto tramite le parole di un mio carissimo amico regista: lo sai che c’è un giovanissimo ricercatore Italiano che si occupa di Neuroscienze e Teatro? Bingo, mi sono detto, c’è qualcuno che è riuscito a far dialogare due microcosmi così apparentemente lontani ma in realtà fortemente interconnessi. Così pian piano ho iniziato a informarmi sull’attività di ricerca di Gabriele.  Un giovane che ha capito l’importanza del dialogo tra arte e scienza, tra la “scintilla divina” e la luce della ragione contemporaneamente presenti nella natura umana.  Quest’intervista è nata da quell’incontro. Con l’augurio di poter presto fare una chiacchierata “vis à vis” con Gabriele e con l’auspicio che la nostra bella Italia possa finalmente tornare ad apprezzare un giorno, spero non troppo lontano, il  lavoro e il talento dei suoi frutti migliori.

Buona lettura.

Ciao Gabriele, innanzitutto potresti raccontaci in breve la tua formazione universitaria?

Il mio percorso universitario si è svolto essenzialmente al Dipartimento di Storia dell’Arte e Spettacolo della Sapienza Università di Roma. In quel dipartimento ho conseguito la laurea triennale, specialistica e il dottorato, quest’ultimo in cotutela con l’Université Paris 8. In quest’arco di tempo ho trascorso alcuni periodi all’estero: a Malta, dove ho partecipato al pilot run dell’European Master in Science of Performative Creativity; a Parigi, dove ho passato un semestre Erasmus e parte del mio dottorato; a Bilbao, dove lavorato come aiuto regista del gruppo “Kabia”; e a Holstebro, in Danimarca, dove ho collaborato con gli Odin Teatret Archives e ho assistito al processo creativo dello spettacolo “Vita Cronica”.

Dal tuo curriculum vitae emerge una grande esperienza teatrale, in che modo il teatro e la cultura in genere hanno influenzato la tua vita e la tua formazione?

Non penso che il teatro abbia influenzato la mia vita più di altre attività, come la musica, ad esempio. Studio e faccio ricerca sul teatro perché mi sembra che sia il luogo in cui le relazioni umane si declinino secondo delle logiche non quotidiane, impreviste. Usando una formula un po’ sbrigativa potrei dire che è il luogo in cui le relazioni umane diventano arte. Ma arte intesa non come forma “alta” di cultura ma come attività di raffinata stimolazione dell’essere umano, così come potremmo considerare la buona cucina o un evento sportivo.

Come ti è venuto in mente di far dialogare la scienza con il teatro?

A un certo punto mi domandai qual è la base del piacere provato da uno spettatore quando è coinvolto in uno spettacolo. Mi chiesi se fosse possibile individuare quali sono le dinamiche che rendevano questo tipo di esperienza (che poi ribattezzai “esperienza performativa dello spettatore”) in qualche modo unica e differente dalle altre esperienze quotidiane. Chiaramente non sono stato il primo a pormi questa domanda, ma le risposte che a quel tempo erano disponibili si fermavano sempre a un livello piuttosto astratto. Iniziai quindi a indagare la possibilità di analizzare un altro livello, ovvero quello neurobiologico. Adesso cerco di capire se le neuroscienze cognitive possono darci dei suggerimenti su cosa succede nel corpo-mente dell’attore e dello spettatore durante una relazione teatrale. Dopo circa sette anni dall’inizio della mia ricerca non posso dire di avere trovato una risposta, ma sono arrivato a formulare alcune considerazioni al riguardo che ho raccolto nel mio libro Le acrobazie dello spettatore. Dal teatro alle neuroscienze e ritorno pubblicato lo scorso maggio da Bulzoni.

Recentemente stai sviluppando la tua attività di ricerca in Francia, a Montpellier, e per lavoro tieni conferenze in diversi paesi europei, in che modo è vista la cultura e il teatro e la ricerca nei paesi esteri?

 Dipende ovviamente dal paese. Devo dire che in Francia il teatro è tenuto in altissima considerazione, ogni città medio-grande ha il suo conservatorio o la sua scuola superiore d’arte drammatica rigorosamente pubblica, e i lavoratori dello spettacolo godono di alcuni diritti e ammortizzatori sociali impensabili in Italia. Detto questo, non penso che maggiori finanziamenti corrispondano sempre a una maggiore qualità degli spettacoli. Spesso in Francia vedo spettacoli strafinanziati che mi lasciano totalmente indifferente. Al contrario, a volte è proprio la scarsità di risorse che obbliga gli artisti a sfruttare al massimo le loro potenzialità creative. Penso, ad esempio all’enorme fiorire di attività teatrali avvenute in Argentina dopo la crisi del 1999, o al lavoro straordinario che fa Antonio Rezza in Italia nonostante la quasi totale assenza di sovvenzioni dignitose.

L’Italia sta passando un periodo estremamente nero sia dal punto di vista scientifico sia dal punto di vista culturale, come vedi dal di fuori questa situazione?

Non pensavo di poter vedere l’Italia “dal di fuori” fino a quando ho ottenuto un contratto d’insegnamento – all’Università di Montpellier 3 – semplicemente inviando il mio curriculum. Alcuni professori del Dipartimento erano interessati ai miei lavori e mi hanno chiamato. Quanto ti rendi conto che una cosa che in Italia sembra impossibile all’estero è la regola, sviluppi uno sguardo senza dubbio diverso. La mia è la più banale delle storie, ma è proprio questa banalità a mettere paura. Qualche giorno fa una mia amica appena arrivata in Germania dopo aver ingoiato non poche frustrazioni in un’università italiana, riportava su Facebook la frase con cui il team tedesco ha concluso il colloquio: “Bella idea, ti diamo tutto quello di cui hai bisogno per realizzarla” a cui aggiungeva un suo commento: “Piango!”.

La cosa assurda è che l’unico rimedio che l’attuale classe dirigente prova a mettere in campo riguarda l’aumento della partecipazione privati nei vari Atenei, come se la dittatura del mercato non avesse già fatto abbastanza danni.

Da genetista appassionato di teatro vorrei domandarti: sono stati effettuati studi su Arte e Dna?

Io non ne conosco.

 

Ultima domanda, l’Italia è un paese che potrebbe vivere esclusivamente di arte, di cultura e di turismo, perché secondo te il nostro paese non investe sulle sue immense potenzialità?

Io non so se l’Italia potrebbe davvero vivere esclusivamente di arte e di cultura, ma è certo che il patrimonio artistico (materiale e immateriale) italiano è sfruttato solo in una minima parte. Il problema è che quando si parla di arte e cultura si sottovaluta un problema strutturale, a mio avviso molto importante. Il nostro sistema più o meno democratico, basato sulla rappresentanza parlamentale, affida ai vari governi il compito di gestire, incentivare e progettare le attività artistiche e culturali. In realtà l’esigenza primaria di ogni governo è quella della rielezione a fine mandato. Proprio a questo fine ogni iniziativa portata avanti dal governo deve dare dei risultati certi e popolari nell’arco del mandato, quindi in un arco di tempo che non supera i 5 anni. Qualsiasi tipo di prassi artistica, però, necessita un processo mediamente lungo di apprendistato e sperimentazione, prima di dare dei risultati evidenti. Nel caso del teatro la forbice tra tempi di apprendistato e la diffusione dei risultati si allarga sempre più, in quanto non esiste un prodotto finito e replicabile tecnicamente. Il risultato è che lo Stato finanzia solamente gli artisti affermati, e quindi capaci di riciclarsi e di dare risultati in tempi brevi. In questo modo non vi è nessun sincero tentativo di incentivare gli artisti emergenti o le attività sperimentali. L’Italia ricade così in una continua musealizzazione di se stessa. Dal punto di vista elettorale, scommettere su nuovi progetti artistici è sconveniente. Scommettere sul teatro ancora meno. Questa paradossale situazione non colpisce solo l’attività artistica ma tutti gli ambiti che richiedono una progettualità di lungo termine, come per esempio l’ambiente. Le politiche ecologiche non possono dare dei risultati profondi e diffusi nel giro di pochi anni ma hanno bisogno di una progettualità che si scontra da sempre con le esigenze biecamente elettorali dei vari governi. Diventare consapevoli di questo problema diventa importantissimo per capire che l’uscita da questo tipo di crisi non sta né nell’intervento massiccio dello Stato (continuamente in balia delle oscillazioni politiche e finanziarie) né nella svendita del nostro patrimonio ai privati. A mio avviso è invece molto interessante la proposta di considerare le strutture adibite alla produzione e promozione di attività culturali secondo la forma giuridica di “bene comune”, il cui accesso gratuito deve essere garantito e la cui gestione è di tipo partecipativo. Ma qui il discorso sarebbe molto lungo. Rimando però a un mio saggio su teatro e beni comuni che sarà pubblicato sulla rivista “Teatro e Storia” la prossima primavera. 

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