Inside Your Eyes, il pop surrealismo a Palazzo Valentini

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Palazzo Valentini ospita fino al 22 ottobre una mostra dedicata alla pittura pop surrealista intitolata Inside Her Eyes. Il progetto è a cura di Alexandra Mazzanti in collaborazione con la Dorothy Circus Gallery di Roma.

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Inside her eyes non è solo un’esposizione, è un viaggio nell’inconscio, un sogno che si concretizza dinnanzi lo sguardo dello spettatore, un confronto tra diverse concezioni di femminilità, il luogo di incontro dove si genera un dialogo tra differenti culture, tra i diversi modi di essere donna.
Cinque artiste, Leila Ataya (Nuova Zelanda), Afarin Sajedi (Iran), Francesca Romana Di Nunzio (Italia), Natalie Shau  (Lituania) e Kwon Kyungyup (Corea) affrontano le loro personali visioni della femminilità attraverso un linguaggio surreale ed onirico che trascina la mente in uno scenario visionario.

Cinque donne che si raccontano e che vengono raccontate dall’unico artista maschile della collettiva Marco Pisanelli, aka Seven Moods, che immagina nella sua opera di invitare le sue colleghe in un salotto ideale che diviene il luogo di comunicazione e di confronto di diverse sensibilità.

In occasione della presentazione della mostra abbiamo incontrato alcuni dei protagonisti dell’esposizione collettiva organizzata da Alexandra Mazzanti, direttrice artistica della Dorothy Circus Gallery di Roma e abbiamo chiesto loro cosa genera il confronto di diverse femminilità e di come l’arte possa essere veicolo e propulsore di nuovi modi di comunicare.

L’opera di Marco Pisanelli, in arte Seven Moods, è il riflesso del suo immaginario onirico, una continua ricerca di altri mondi, di differenti realtà. Seven Moods è stato recentemente uno dei protagonisti della mostra “Pop Surrealism Stay Foolish”, oltre l’interesse per l’arte visuale è anche batterista della band “Le Mani”.

Marco qual è il percorso che hai intrapreso per arrivare a questa forma di espressione artistica?

 In realtà io disegno da quando frequentavo le scuole elementari, ho sempre avuto questa esigenza di fuggire dal mondo reale, scappare ogni tanto, invece di giocare a pallone con i miei amici, prendevo i miei quaderni e cominciavo a disegnare, è una cosa che faccio da sempre. Successivamente ho studiato presso l’accademia di belle arti dove ho imparato le diverse tecniche pittoriche e ho buttato tutti i miei pensieri su tela, per me è un modo di evadere, di scoprire quei mondi “altri” che popolano la mente.

Sei l’unico uomo che espone in questa mostra, cosa ti hanno ispirato le artiste qui presenti?

 Quando ho visto le loro opere ne sono rimasto colpito, sono bravissime e così ho immaginato di invitarle a una specie di barbecue pomeridiano, in un acquario emerso. Ho dipinto questo quadro mentre mi trovavo in una villa sul lago ed ero circondato dalla natura, le ho invitate proprio lì in quel giardino, volevo passare un pomeriggio con loro e si sono portate dietro i propri personaggi, il proprio immaginario.

Di tutte le opere esposte quale ti ha lasciato qualcosa in più delle altre?

 Sicuramente le tele di Afarin (n.d.r. “Cold Spring” e “Like a Queen”) mi hanno subito attirato.

Francesca Romana Di Nunzio è una scultrice figurativa che opera nel campo della scenografia cinematografica e teatrale. Dal 1983 collabora con Dario Argento nella realizzazione dei modelli scultorei per gli effetti speciali dei film del grande maestro. Recentemente ha lavorato nei set cinematografici di Martin Scorsese e di Pupi Avati, il suo immaginario surrealista ha profonde radici nel noir e nel racconto fiabesco.

La sua partecipazione a questa mostra collettiva l’ha messa a confronto con diversi concetti di femminilità, come l’ha arricchita questa esperienza?

 È stata sicuramente un’opportunità quella di vedermi accorpata ad altre donne perché, senza voler rimarcare degli stereotipi sul femminismo, credo molto nella creatività femminile. Non conoscevo le artiste che hanno esposto qui con me, è stata un’occasione nuova e interessante per confrontarmi e, tra parentesi, è la prima volta che espongo, io lavoro da molti anni come scultrice ma nel campo cinematografico degli effetti speciali, nonostante trenta anni di carriera è per me un’esperienza totalmente nuova quella di mostrare le mie opere, sono una maestrante che si è fatta fortemente le ossa.

La sua definizione di maestrante mi conduce al concetto di “mestiere dell’arte”, l’artista che torna a sporcarsi le mani, essendo lei scultrice credo che segua letteralmente questa visione.

 Gli obiettivi sono sempre stati molto trascinanti, il cinema in principio, ancor prima dell’arte che mi vede ora come protagonista. In realtà è stato il cinema il mio motore di spinta perché vedere realizzata una scena in sinergia con altre persone è fondamentale, si agisce in gruppo quindi c’è una forza lavoro che deve essere concertata, questo era il massimo per me. Il settore specifico dove ho lavorato è l’horror anche se in quel caso creavo diavoli, mostri, santi, era fantastico vedere che il mio lavoro faceva parte di un film che è un’opera ancora più complessa.

Questo è stato il primo motore di entusiasmo, certamente la scultura è la mia grande passione e oggi ritrovandomi qui mi rendo conto che questa esperienza oltre ad essere nuova è anche un altro punto di vista da scoprire. Parliamo di occhi, di visione ed ecco che forse basta cambiare la propria percezione per rivedere tutto in un’altra ottica.

Sono rimasta folgorata dalla sua statua che possiede le fattezze di Kate Moss e mi chiedevo come questa creatura mitologica che lei ha creato abbia assunto le sembianze di una delle icone più popolari dei nostri tempi.

 Kate Moss è uno stereotipo che come tale soffre delle conseguenze prodotte da se stessa, è un donna che sicuramente è arrivata al top dell’immagine e che ha toccato delle situazioni estreme nella sua vita, nelle sue scelte, nel troppo successo, nel troppo essere icona, dunque ritorniamo a parlare del punto di vista, di ciò che si vede e di ciò che si vuole vedere. Personalmente non conosco Kate Moss è un’icona che rappresenta essenzialmente un’immagine e non se stessa, in qualche maniera ne è schiava, in fondo, tacitamente, c’è una denuncia verso l’immagine che cela la realtà vera. Un’immagine può offuscare, può rendere ciechi. I nostri occhi non sono sempre in grado di vedere, noi guardiamo ma non sappiamo vedere.

Viviamo in un’epoca dove c’è un’overdose di fotografie, di immagini, forse c’è bisogno di arrestare questo continuo flusso, di rallentarlo…

 Sicuramente c’è l’esigenza di sottolineare in maniera critica la superficialità dell’estremizzazione dell’immagine che di per sé io non aborro, l’immagine, l’immaginario e l’estetica sono dei concetti importantissimi fanno parte della nostra cultura da sempre. È la sua strumentalizzazione, la sua banalizzazione che lascia il vuoto. Troppo da vedere, tutto troppo facile, si perde la lucidità degli occhi e si diventa un po’ ciechi.

Come ultima domanda vorrei chiederle quale opera l’ha colpita di più tra le artiste che hanno esposto con lei.

 Sono molto attratta dai due oli di Kwon Kyungyup (n.d.r. “Last letter” e “Memory of love”) mi piace l’eleganza della sua tecnica perché usa l’olio in una maniera sopraffina, mi piace l’essenzialità del soggetto e credo che siano i pezzi che preferisco.

Inside Her Eyes – Palazzo Valentini, sala Egon von Furstenberg dall’ 11 al 22 ottobre.

Per informazioni:

 www.provincia.roma.it

www.dorothycircusgallery.com

 
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