Volge a conclusione l’11esimo Festival Internazionale di Danza Contemporanea, alla Biennale di Venezia, con non poche riflessioni e perplessità.

Un Festival che ha introdotto un Progetto College, rivolto a danzatori impegnati per tre mesi in un percorso intrecciato tra creazioni e training.

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Mentre, solo per 3 coreografi selezionati, è stata data la possibilità di elaborare tre creazioni originali, di circa 12 minuti, presentati durante il Festival. Esperienza trasversale che accomuna tra l’altro tutte le arti e i settori della Biennale : cinema, teatro, musica e danza.

Lo sforzo è stato reso possibile con il sostegno del Ministro per i Beni e le Attività Culturali, la Direzione Generale dello Spettacolo e la Regione Veneto in toto.

Dalla terrazza di Palazzo Ca’ Giustinian, affacciata sulla città lagunare, che accoglie la sede della Biennale, si è inaugurata  in seno ad un partèrre internazionale, mettendo in bella mostra, una Venezia  sempre pronta a sbalordire per i suoi giochi di luce.

In questa cornice abbiamo carpito una domanda al Presidente della Biennale, Paolo Baratta, ormai da anni,  un tutt’uno con la stessa.

Presidente Baratta, qual è la trasgressione che si è concesso quest’anno nell’allestire la Biennale, nella fattispecie, quella della Danza?

Innanzi tutto, partendo dal titolo, First Chapter, Capitolo Primo, che non vuole cancellare il passato, ma piuttosto aprire una porta alla novità e qualità, del presente e prossimo futuro.

A partire anche dalla pronuncia di “First”, significando il numero 4, di buon auspicio, quale possibile programmazione quadriennale del Festival, in futuro.

In effetti, dopo l’era del brasiliano Ismael Ivo, precedente Direttore, con una programmazione dai colori multietnici, dalle sfumature sotto pelle e i contrasti fisici tra corpo ed eros, presentando e toccando un caleidoscopio di artisti agli antipodi del globo, facendo breccia nella novità e nella creazione, si è passati alla direzione tutta italiana del pensiero architettonico di Virgilio Sieni, austero, con l’intento di portare la danza negli spazi urbani, nell’habitat dell’àgora, facendola fruire a chiunque, sdoganando il detto, che l’unico luogo deputato alla rappresentazione è il teatro.

Oggi. Un programma filo canadese/statunitense, quello visto quest’anno. Proposto dalla neo Direttrice eletta, Marie Chouinard, che ha giocato la sua prima carta vincente proponendo il Leone d’Oro alla Carriera a Lucinda Childs, interprete e coreografa eccellente. Una delle pioniere della post modern dance.

In prima Nazionale, Dance, una pietra miliare nata alla fine degli anni ’70, divenuta di repertorio per molte Compagnie in tutto il mondo. I ballerini pur con fisicità e peso forma in eccedenza, sovrapposti alle immagini di repertorio in bianco e nero del passato , e il contrasto del disegno luci, dei colori primari, blu, rosso e giallo, si sono librati nell’aria con sincronica leggerezza, sulle note del compositore Philip Glass, collaboratore da sempre della Childs.

La certezza che la Biennale sia il luogo deputato per presentare l’evoluzione del linguaggio coreografico della danza contemporanea che chiede di poter vivere, vedere, provare, creatività, innovazione e ricerca, insiti nel messaggio stesso di tutti i settori del Festival. Per cui , a seguire, alcuni dubbi e perplessità , si sono manifestati, nella scelta di alcuni artisti invitati.

Il ventaglio delle proposte sfoderate  in rassegna, annovera la presenza, di Alessandro Sciarroni, coreografo, forse, sicuramente performer, che annovera in soli 4 anni, un palmares, ricco di presenze, nei Festival Internazionali più accreditati del settore, forse troppo presto conquistati. Dalla Francia, da cui trae la formazione di clownerie, ai Paesi del Sol Levante.

Con Chroma, in Prima Nazionale, circa 45 minuti, di rotazione sul proprio asse, in un’azione  quasi ipnotica, Sciarroni, muta in continuazione, l’azione e il conseguente significato visivo delle braccia. Dalla posa della resa, al saluto militare, al pugno della rivoluzione, all’avvitamento di un tuffo. Pare anche, al saluto romano, e così via in divenire in dissolvenza. Ma a che pro?

Perché allora non invitare un danzatore incline a riproporre, il turning della danza Sufi dei Dervisci, come ad esempio il coreografo Ziya Azazi, capace di raccontarsi in chiave speciale contemporanea, in Dervish in Progress, visto a febbraio nella rassegna Danza del teatro Ponchielli a Cremona.

Un’altra Prima Italiana, su cui fare una riflessione, è il progetto coreografico della giovane, Clara Furey e il suo partner co autore Peter Jasko.

Quanta sofferenza nello stare con i corpi inermi sul pavimento, trascinati a forza d’inerzia e durissima contrazione muscolare, al punto di tremare ed entrare nel codice del movimento breaker del hip hop, ma senza svilupparlo nel segno identificativo del gesto tecnico.

Un muro della sofferenza a cui essere sbalzati in assenza di gravità, e anche qui , leit-motive, più volte, le braccia alzate in segno di resa e rassegnazione. Due corpi s’incontrano. Due corpi si attraggono. Due corpi si respingono. Una curva di Gauss, altalenante, su e giù, che a fatica trova la sua identità e la sua costruzione in chiusura.

Balza all’occhio l’insofferenza di una generazione, alla quale abbiamo consegnato un mondo, distrutto e destrutturato, a cui si stà spegnendo la luce dell’atto creativo, in ogni sua funzione e settore.

Torna  la stabilità, non a caso con la precedente generazione e progetto artistico della coreografa e già performer, Louise Lecavalier, che in partnership con Frédéric Tavernini, offre, con So Blue, un ritratto autobiografico della propria evoluzione nel gesto del movimento e nel contenuto profondo dell’anima.

La ricordiamo, fin dai suoi esordi, in qualità di straordinaria interprete atletica, con la Compagnia, La La La Dance, di cui conservare la registrazione su nastro cassetta VHS, della tournee del 1988-89 a fianco di David Bowie, rimane un prezioso inedito.

Leone d’argento a Dana Michel

Il Leone d’Argento, è stato assegnato a Dana Michel, giovane interprete canadese, con il suo intervento artistico, infrange tutti gli schemi di una struttura coreografica, sfacciatamente provocatoria e irriverente.

Un sentimento di agio e positività, pervade infine dalla poliedricità dell’artista Direttrice Marie Chouinard, presente con la sua Compagnia alla Biennale.

In sospensione tra corpo e anima, delinea il filo conduttore meditativo, del suo personale fil rouge. Un filo conduttore che tesse la trama, riportando la calma interiore, come acqua cristallina che sgorga tra due rive, due sponde, sulle quali lei stessa, ai piedi dei monti più antichi del mondo, i Laurentidi, vive le albe e i tramonti a cui s’ispira.

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