La Marocchinate di Simone Cristicchi e Ariele Vincenti. Quando il Teatro guarda in faccia la Storia

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Aspettavamo ji salvatori…so’ arrivati ji diavoli

Va in scena, nell’ambito della ricca e appassionata rassegna estiva, al Teatro Marconi di Roma, lo spettacolo Le Marocchinate di Simone Cristicchi e Ariele Vincenti, cui una nutrita platea applaude con calore e partecipazione.

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Un applauso che dimostra come, il teatro civile o “impegnato”, che recupera storie e tradizione del nostro passato recente, sia apprezzato dal pubblico oltreché dagli “addetti ai lavori”.

Il grande merito va al protagonista, Ariele Vincenti, che da solo tratteggia con grande intelligenza, preparazione, cura e amore, la figura del contadino ciociaro.

Egli si confessa con un immaginario Enzo Biagi e gli racconta, accoratamente, un capitolo di storia fra i più infelici e dimenticati.

Non si vuol fare del revisionismo tendente a destra, nè disprezzare la faticosa liberazione degli Alleati in Itali; ma solo ricordare, con orgoglio e senza vergogna, i soprusi subiti da parte delle truppe marocchine e permessi dalle stesse autorità francesi. Episodio simbolo di una inumanità della guerra da qualsivoglia parte o partito, sia vista.

Se le bombe distruggono i paesi distruggono i paesi, gli atti immondi compiuti da questi diavoli su donne, uomini e bambini in Ciociaria hanno distrutto le anime di chi, già sfiancato dalla fame, non aspettava altro che

un pezzo di pane bianco simbolo di pace.

Ariele ce lo racconta in dialetto, lo stesso del nonno che impersona, con passione e devozione verso un fatto familiare che si erge a simbolo, così come la sua attitudine alla semplicità espressiva diviene un utile mezzo di comprensione per tutti.

Nella spoglia cornice campagnola, tratteggiata solo da due balle di fieno e da un bastone che egli brandisce per custodire le pecore, ascoltiamo le melodie, popolari e colte, attraverso il canto malinconico di un violino, splendidamente imbracciato da Marcello Corvino: nella finzione scenica è il caro amico del protagonista.

Esse accompagnano i diversi episodi, secondo un principio di teatro di narrazione cui si rifà una gran parte degli autori-attori dell’attuale scena italiana, come Celestini e Paolini tanto per citarne alcuni.

La vicenda evocata in questo testo copre un periodo di tempo dall’adolescenza all’età adulta del protagonista, con salti temporali, sovrapposizioni, interruzioni: esattamente come la memoria, personale e storica, di tutti noi.

E in questo modo, una melodia fa scaturire un ricordo, un volto si sovrappone a un altro, un pensiero di dolore sfuma in un episodio buffo, mentre su tutto questo aleggia il “sapore” di una tradizione contadina che fatica a rimanere viva e che pure è forte e radicata (come dimostra la presenza del Gruppo di musica e ballo popolare di Castro de’ Volsci che chiude lo spettacolo).

E se il passato non si può cancellare, né si deve dimenticare, al di là di ogni revisionismo, questo spettacolo ci invita a fare attenzione al futuro, perché in ogni parte del mondo le violenze siano riconosciute e punite e le vittime difese e tutelate.

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