E alla fine di una settimana tranquilla arriva la polemica della domenica pomeriggio.

Ero pronta a scrivere di anni ’80. Si perché nella settimana appena trascorsa ho avuto modo di fare un tuffo nel passato, negli anni ’80, grazie a due proposte, una teatrale e l’altra discografica, che, in qualche modo, contribuirono allora al mio desiderio di entrare a lavorare nello sfavillante mondo dello show business

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Ero pronta a scrivere di quanto mi ha emozionato la terza edizione italiana di “A Chorus Line” che ha debuttato con grande successo giovedì 14 febbraio al Teatro Nazionale di Milano (dove resterà in scena fino a metà aprile). Un’emozione che mi ha fatto tornare indietro al 1984 quando la storia dell’audizione dei ballerini di fila per uno show di Broadway, con i loro patemi, turbamenti, storie drammatiche ma anche divertente, portata dal palco di Broadway al grande schermo da Sir Richard Attemborough, protagonista Michael Douglas, mi illuminò tanto da far dire a me stessa “Voglio far parte di questo mondo”.

Polemica

Ero già pronta anche a parlare di un disco molto particolare, pubblicato un paio di settimane fa da BMG, “Reimagines – The Eighties”, creato, firmato, composto, suonato e anche (in qualche brano) cantato da Trevor Horn. Per quelli che hanno meno di 30 anni è doveroso ricordare che Trevor Horn è stato per la musica inglese anni ’80 quello che ora Mark Ronson (produttore del grande successo “Shallow” di Lady Gaga per “A Star is Born” e in radio attualmente in coppia con Miley Cyrus con il brano “Nothing breaks like a Heart”).

Horn, oltre ad aver fatto parte degli Yes, aver fondato “The buggles” (Video Killed the radio star), The Art of Noise, ha prodotto il 90% della musica inglese di due decenni tra cui Pet Shop Boys, Frankie Goes To Hollywood, ABC, Simple Minds…nonché Grace Jones, Tina Turner, Tom Jones, Seal.

Bene ero pronta a scrivere della magia di questo disco nel quale Trevor Horn riprende alcuni successi anni ’80 da lui prodotti, li ri-arriangia per una grande orchestra e li fa cantare da voci diverse dalle versioni originali.

Così abbiamo una strepitosa versione di “Everybody Wants to rule the world” dei Tears for Fears (tra l’altro in concerto a Milano, esaurito, tra pochi giorni) cantata da Robbie Williams, una struggente “Ashes to Ashes” di David Bowie interpretata magicamente da Seal, una sensuale “What’s love got to do with it?” di Tina Turner resa altrettanto sensuale dalla grande voce di Tony Hadley (grazie, mi fai dimenticare quell’orribile duetto sanremese con Arisa).

La polemica

Avrei voluto parlare di tutto questo ma, puntuale come un orologio, arriva la polemica della domenica pomeriggio. Ancora sulla discussa vittoria di Mahmood al Festival di Sanremo, il leghista Alessandro Morelli, presidente della commissione Trasporti e Telecomunicazioni della Camera, ex direttore della leghista Radio Padania, chiede, con una legge, che le radio modifichino il proprio palinsesto, inserendo nella programmazione una canzone italiana ogni tre.

Per l’esattezza il testo riporta:

“le emittenti radiofoniche, nazionali e private, devono riservare, almeno un terzo della loro programmazione giornaliera alla produzione musicale italiana, opera di autori o artisti italiani e incisa e prodotta in Italia, distribuita in maniera omogenea durante le 24 ore di programmazione. Inoltre – continua il testo – una quota pari al 10 per cento della programmazione giornaliera della produzione musicale italiana è riservata alle produzioni degli artisti emergenti”.

Immediatamente la rete si è scagliata contro questa proposta. Beh, inutile riportare le decine e decine di frasi che ho letto. Le potete immaginare.

Ma i commentatori di pancia ignorano qualcosa. Intanto il leghista Morelli ha scoperto l’acqua calda. In un clima di caccia alle streghe, di additare lo straniero anche quando non lo è (come Mahmood), ha rispolverato una proposta che venne fatta diversi anni fa a tutela della produzione musicale italiana.

Una proposta che ricalcava il modello francese dove, dal 1994, le radio francesi sono obbligate a trasmettere musica francese per una quota pari al 40% della programmazione giornaliera. Questo era per salvaguardare la cultura e la lingua francese. E il 40% è davvero tanto.

E la proposta venne fatta per salvaguardare il lavoro di autori, musicisti, interpreti italiani a fronte di quella che era una vera e propria invasione di musica straniera in particolar modo inglese e americana.

Salvaguardare il lavoro significa soprattutto salvare posti di lavoro che la musica italiana produce nel suo indotto (e di cui purtroppo se ne è sempre parlato troppo, troppo poco)

Ciò che mi ha fatto sorridere di questa ri-proposta del leghista (il quale parla anche di una quota per le proposte degli emergenti, mai e dico mai fatte ascoltare dai grandi network a meno che non abbiano interessi di diritti condivisi o arrivino dai talent) è il tempismo, il cavalcare l’onda della caccia allo straniero (o meglio, al presunto straniero) con tutto lo strascico di polemiche che non potevano non esserci (e continueranno per un bel po’).

Ma vorrei solo dire a chi commenta di pancia di informarsi prima di andare contro ad una proposta (non nuova) che tanto tanto sbagliata non lo è, e che di sbagliato ha solo il tempo e la bandiera politica che l’ha generata.

Vorrei anche far presente che la “radio libera ma libera veramente” è un caso sempre più eccezionale. La radio degli anni ’70, dei primi anni ’80, quella un po’ pirata, che trasmetteva ciò che voleva anche perché il più delle volte i dischi da trasmettere erano portati dagli stessi dj, è oramai entrata nella storia. Le radio sono da tempo comunque in mano ad una programmazione musicale spesso “sollecitata” dai discografici che “chiedono” di trasmettere questo o quel brano, questo artista o quell’altro, con un occhio sempre incollato (ma non ne sono certa dell’attuale esistenza, fino qualche anno fa era così) alla classifica del venerdì delle canzoni più trasmesse. Per non parlare poi del “se lo mette la radio x la metto anche io”.

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