Chi ha il pane non ha i denti. Vecchio proverbio per dire che chi ha le possibilità o non sa come usarle o le spreca.  E’ quanto mi è venuto in mente ieri pomeriggio mentre assistevo presso il Teatro degli Arcimboldi di Milano, all’infinito (tre ore tre) “Musicanti”, ovvero il musical (?) ispirato dalle canzoni di Pino Daniele.

Il pane in questo caso è rappresentato dalla ricchezza della produzione (si vede), dal talento degli interpreti (si vede) dal virtuosismo dei musicisti (si vede). Ma questo pane in Musicanti non viene azzannato perché i denti mancano. In questo caso i denti sono la drammaturgia, la storia, il soggetto (debole) la sceneggiatura. E l’intenzione.

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Viene annunciato come musical ma non lo è, non nell’idea che ho del musical (ovvero canto ballo recitazione o al limite – per l’opera moderna o popolare – canto e ballo).

Musicanti
Pietro Pignatelli è Dummì

C’è recitazione (a tratti anche commovente come il monologo di Pietro Pignatelli – Domenico Alias Dummì) il ballo è inesistente (si ci sono i ballerini ma sono inutili, cioè per fare quello che fanno bastavano delle comparse perché le coreografie non esistono, ma solo dei passetti, delle movenze che saprei farei anch’io senza aver studiato danza ma solo con un buon senso del ritmo) il canto (ovvero la parte cantata) sovrasta tutto.

Tanto che, soprattutto nel secondo tempo, il musical si trasforma in un concerto tributo con qualche battuta recitata, qualche.

Per non parlare poi dei laser verdi che si usano nei concerti nei palasport qui usati per giustificare dei cambi di scena, per non fare vedere i movimenti sul palco. Ma quello che destabilizza sono i due, si due, momenti di jam session della band che è stabilmente sul palco (del resto la storia si svolge tutta attorno al Ueman, un locale alternativo di musica dal vivo realmente esistito a Napoli conosciuto come Napoli Centrale – me lo hanno detto, personalmente lo conoscevo solo di nome per cui non ero in grado di riconoscerlo) jam che avvengono senza un motivo narrativo preciso, logico, jam che di solito si fanno verso la fine dei concerti per presentare la band che accompagna il cantante di turno, ma soprattutto per fargli riprendere fiato, bere e magari fare la pipì).

A quel punto non ho capito più nulla. Non sapevo se ero ad un concerto o ad uno spettacolo teatrale.

Presa dalla foga di scrivere quanto sopra mi sono accorta che non ho parlato della trama dello spettacolo. Siamo a Napoli (ok si era capito) a cavallo tra gli anni ’70 e gli ’80. Antonio (Alessandro D’Auria) è un ragazzo nativo di Napoli ma che ha vissuto fin da piccolo a Torino e torna nella sua città, che non ama anzi la detesta proprio, perché deve ricevere un’eredità da un lontano parente.

Prima di incontrare il notaio per la lettura del testamento, si scontra in malo modo con Anna (Noemi Smorra) ragazza che va sempre di corsa che si scoprirà essere la cantante del Ueman. Il notaio gli annuncia che ha ereditato un immobile dal padre, padre che Antonio non ha mai conosciuto e che sapeva essere morto prima della sua nascita.

Antonio di getto si rifiuta di prendere l’immobile e vorrebbe scappare subito da Napoli ma il notaio gli annuncia che per sbrigare le questioni notarili, anche in vista di una vendita, deve fermarsi a Napoli per qualche giorno.

Nel cercare un posto dove stare conosce Dummì (Pietro Pignatelli) artista di strada da un passato poco chiaro (e tale purtroppo resterà visto che la sceneggiatura non sviluppa il suo personaggio e la sua storia solo e malamente accennata, con un’uscita di scena finale incomprensibile).

Dummì, su richiesta di Antonio, lo porterà ad incontrare di nuovo Anna, e lo condurrà al Ueman. Qui viene a sapere che  il futuro di quel locale è incerto perché il proprietario è morto e non si sa cosa vorranno farne gli eredi.

Antonio capisce che l’immobile ereditato è proprio l’Ueman ed è lui che dovrà deciderne le sorti. Il locale è un crocevia di personaggi come  Tatà, il simpatico gestore (Enzo Casertano) alle prese con stipendi da pagare e pizzo da dare a “O’ Scic” (Leandro Amato) il malavitoso locale temuto da tutti, già compagno di Anna. E come Teresina (Francesco Viglietti) il femminiello che nel locale è un po’ il tuttofare e amico fraterno di Anna.

Musicanti

Anche in questo caso la storia di Teresina è solo accennata. Peccato perché poteva essere sviluppata meglio e non tirata via con un paio di tacchi (poco visibili in realtà) e una finta stola (che pare più un asciughino da bar). Infine vi è Rita (Simona Capozzi), ex cantante del locale dal passato burrascoso così come è burrascoso il rapporto con Dummì.

A seguire i drammi di ogni interprete vi è “Donna Concetta” (Maria Letizia Gorga), pronta a cantare drammi e consigli.

La storia si sviluppa abbastanza bene nel primo tempo per poi perdersi completamente nel secondo tempo dove più di una volta, le vicende sono date alla libera interpretazione dello spettatore. In pratica lo spettatore è costretto a supporre dei passaggi narrativi che in scena non vengono raccontati.

Come ho scritto però all’inizio il cast è davvero di primo livello. Maria Letizia Gorga è strepitosa nel canto e nell’interpretazione. Enzo Casertano (Tatà) e Francesco Viglietti (Teresina) sono in ottima sintonia nei siparietti comici (si siparietti purtroppo). Li fanno spesso apparire come quando arrivano i clown a far sorridere il pubblico tra un numero circense e l’altro ad alta tensione.

Noemi Smorra conferma la sua bravura nel canto. Pietro Pignatelli ha il personaggio che nello spettacolo subisce maggiori cambiamenti (dall’ironia al dramma) e lo interpreta con la sua indiscussa bravura, così come mi è parso il migliore ad eseguire i brani di Pino Daniele dandogli le giuste sfumature (e non solo perché è napoletano come quasi tutti gli interpreti).

La band che accompagna Anna (e che suona tutte le canzoni dello spettacolo) è di primordine tanto da includere due special guest: Mel Collins, sassofonista britannico, già membro dei King Crimson nonché musicista con una lunga serie di illustre  collaborazioni e il bassista Jimmy Earl, jazzista di chiara fama con candidature ai Grammy (il premio della musica)

Allora, per concludere, l’idea c’è (anche se le canzoni utilizzate sono tratte dalle prime produzioni di Pino Daniele quindi poco conosciute al grande pubblico soprattutto a quel pubblico che, come me, mastica poco il napoletano) ma andrebbe rivista nella sua durata e nelle sue nelle intenzioni (che andrebbero meglio comunicate).

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