Bentornati alla rubrica degli Oscar 2020. Benvenuti invece se è la prima volta (qui per i non iniziati trovate la puntata precedente: non è indispensabile per seguire il plot, ma arricchisce l’esperienza generale).

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Riassunto della puntata precedente: siamo qui per discutere non chi debba vincere o chi vincerà un Oscar (tra l’altro due cose ben diverse), ma del perché tutti dovrebbero invece portarsi a casa almeno un pezzo della statuina, decidano poi loro che parte.

Questa è la #tuttivincitoriedition e oggi parliamo del premio che – conoscendo la diva interiore che ogni regista si porta dentro – sarà più difficile da far condividere.

MIGLIOR REGIA

Un Oscar a Bong Joon-ho per il mondo visto da sotto e il mondo visto da sopra

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Bong Joon-ho è un regista a cui piace parlare di classi. E di cosa succede quando classi diverse si incontrano e si scontrano. Un argomento vecchio come i sassi con cui è costruita la Bastiglia, lo so. Ma nonostante il soggetto trito, ritrito, praticamente in polvere, Bong Joon-ho è sempre stato brillante nel ripresentarcelo in modi originali, da punti di vista nuovi. Come un artista dovrebbe fare. Per questo suo ultimo film invece sceglie uno sguardo tanto banale quanto geniale nella sua semplicità: i ricchi stanno in alto e i poveri stanno in basso. È ovvio, scontato.

Ma è la sua brillante regia ad elevare l’ovvietà a qualcosa di profondo. E non grazie a qualche ostentazione intellettualoide ma perché, se raccontata con maestria, nell’ovvietà c’è la verità. A volte è così semplice. Dalla primissima inquadratura di Parasite nell’angusto seminterrato dove abito i nostri protagonisti, ogni scena è strutturata da Bong Joohn-ho con in mente perennemente l’asse verticale. Cosa sta sopra e cosa sta sotto e da quale di questi due punti di vista vedo il mondo. E la differenza di altitudine è tale che se nell’Olimpo dei ricchi la pioggia schiarisce il cielo, nell’inferno dei poveri è acqua che viene dal basso, è fetida fogna.

Un Oscar a Sam Mendes perché il virtuosismo è comunque un valore

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L’esercizio dell’ unico piano sequenza di Mendes potrebbe sembrare ad alcuni una vuota esibizione di tecnica (tra l’altro già sperimentata dal Birdman di Inarritu). E in parte forse è così. Era davvero necessario per raccontare la storia di 1917? Probabilmente no. Ma è un po’ come chiedere a Klint a che serviva tutto quell’oro se il soggetto del disegno si capiva ugualmente. Lo stile ha raramente a che fare con il bisogno. Altrimenti perché mettere su barraconi da centinaia di milioni di dollari per girare pellicole quando potremmo semplicemente twittarne le sinossi?

Perché ovviamente senza la forma il contenuto perde di valore. E la forma che Mendes sceglie per il suo war movie è virtuosistica, ma anche perfettamente eseguita. E non solo perché tecnicamente impeccabile, ma perché è una forma che arricchisce il contenuto. Una regia esattamente cucita sulla sceneggiatura (o più probabilmente il contrario), in cui quel punto di vista che mai si stacca dal protagonista ci lascia appesi alla stessa travolgente tensione, la stessa neurotica ansia. È una regia che si fa unico con la sceneggiatura e le interpretazioni, e questo è uno dei risultati più alti a cui una regia può aspirare.     

Un Oscar a Todd Phillips perché Scorsese ormai è anziano

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Qualcuno la battuta l’ha già fatta. Ma io la rifaccio lo stesso: su questa lista c’è Scorsese due volte. E anche se i paragoni che si sono susseguiti infiniti negli ultimi mesi tra il Joker di Phillips e il sopracitato mostro del cinema sono stati forse a volte esagerati, è innegabile l’influenza di Scorsese nelle inquadrature di questa Gotham. Ed è anche in qualche modo esilarante che il regista che più aspramente si è espresso contro i cinecomic si ritrovi adesso come competizione agli Oscar (e una competizione anche pericolosa) proprio un cinecomic per di più quasi girato come un suo omaggio. La dea dell’ironia sa sempre dove meglio colpire.

È l’ironia non è solo rivolta a Scorsese, ma forse a tutta Hollywood. O almeno, l’Hollywood chic dell’Academy. In qualche modo Joker (e il suo successo) si presentano come a lei come una sfida: quella cioè di finalmente superare quel cordone rosso che separa ciò che è alto cinema da ciò che è solo intrattenimento. Joker presenta una sintesi di vecchio e nuovo e (forse) ciò che il cinema potrebbe essere in alcune sue forme da qui in poi. È evidente infatti che i supereroi abbiamo ormai preso il sopravvento, tanto al botteghino quanto per numero di produzioni. Come in epoche diverse avevano già fatto i cowboy, come ancora prima facevano i cavalieri. Ogni età ha i suoi eroi delle masse. L’unica differenza è che i nostri adesso sono in calzamaglia (chissà cosa riflette dei nostri valori).

Scorsese però ha settantasette anni. È in virtù di questo rappresenta un modo di fare e consumare cinema ormai in pericolo di estinzione. Proprio a causa dei suoi settantasette anni gli è anche (comprensibilmente) difficile vedere questo cambiamento non come una completa catastrofe. Ma se invece di polarizzare il discorso riuscissimo invece a combinare il meglio dei due mondi? Ad alleare l’arte del Cinema al maiuscolo e la popolarità delle storie e dei personaggi che in questo momento sembrano raccogliere la sensibilità dei nostri tempi? Allora avremmo trovato un paradigma nuovo. Un modo diverso di fare cinema che non sia più vecchio contro nuovo, che non sia solo auter verso blockbuster, ma una sintesi virtuosa. E credo che questo Todd Phillips l’abbia capito bene.

Un Oscar a Martin Scorsese perché Scorsese ormai è anziano

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Martin Scorsese ha settantasette anni. È uno dei registi più importanti della storia (ovviamente duh) e ha ormai collezionato più classici del cinema di quanto a un essere umano da solo dovrebbe essere permesso (lasciate qualcosa anche per noi non-geni, grazie). E questa ultima fatica – giusto chiamarla tale visto che è stata girata nel corso di cinque lunghi anni – è forse il coronamento e insieme la sintesi di una carriera così straordinaria. In The Irishman è presente tutto ciò che Scorsese è stato ed è. Probabilmente è il suo magnum opus e in quanto tale andrebbe celebrato. Perché se spesso capita che un Oscar per la miglior regia non è un premio al film ma alla carriera, la carriera che merita di essere premiata a questo giro è la sua.  

Un Oscar a Quentin Tarantino perché non gliene abbiamo ancora dato uno

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Crediateci o meno, ma Tarantino non ha mai vinto un Oscar per la miglior regia. Ne ha vinti altri, ma questo mai. Gli manca e così non può finire l’album. Battutacce a parte, come sopra citato gli Oscar alla miglior regia finiscono spesso per essere premi alla carriera. Ma se non lo si vince in questo modo è perché il premio è andato – un po’ per condizionamento – al film più chiacchierato dell’anno (categoria cioè dove si collocano i primi tre titoli di questa lista). Così spesso ci si ritrova con registi come Tarantino, nominati volta dopo volta, ma che si sono sempre visti passare davanti il film hot del momento (che magari adesso nemmeno più ricordiamo).

Un giorno sicuramente lo daranno anche a lui, nella forma però in cui spesso arrivano gli Oscar a personaggi del calibro di Tarantino (cioè con carriere così consolidate che vincere un Oscar non le influenza minimamente): l’Oscar riparatore. È una forma geniale e insieme esilarante di premio che consiste in un collettivo “ups” dell’Academy. Quando cioè i membri si voltano indietro alla storia degli Oscar e si rendono conto di non aver mai premiato dei mostri sacri. E molto spesso questi riconoscimenti vengono assegnati non davvero alla migliore performance o regia, ma solo nella fretta di riparare, di dare un Oscar a qualcuno prima che si possa affermare che l’Academy non capisce niente. Quello di Leonardo Di Caprio è stato una straordinario Oscar-ups, chissà che questa non sia la volta dell’Oscar-ups di Tarantino con il suo C’era una volta a Hollywood.

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