Ovvero: di luoghi abbandonati e di persone abbandonate. Venerdì sono state inaugurate a poche ore di distanza due mostre molto rilevanti nel panorama fotografico contemporaneo.

La prima si colloca all’interno della manifestazione Trieste Photo Days, Festival della fotografia urbana entrato nel vivo questo fine settimana.

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Protagonisti della Mostra Premio aperta al pubblico negli spazi del Museo di Villa Sartorio e inaugurata alla presenza dell’Assessore Rossi, di Claudia Colecchia (Responsabile Fototeca e Biblioteca dei Musei Civici di Trieste), Laura Carlini Fanfogna (Direttrice Musei Civici di Trieste), Lorenza Resciniti (Conservatore del Museo) e dell’art director di Trieste Photo Days, Angelo Cucchetto, vari artisti da varie parti dell’Europa.

Sono quattro i portfolio scelti, tra cui quelli di Maria Pansini e Michele Andreossi: se la prima ci porta all’interno del quartiere Tarlabasi di Istanbul, universo del mondo curdo cioè di quel popolo senza stato; il secondo porta chi guarda a Dubai, scintillante metropoli restituita dallo sguardo e dalla quotidianità di chi quella metropoli continua fisicamente a costruirla.

A completare l’esposizione Silent Screams of Oblivion di Francis Meslet, in cui protagonista è l’archeologia industriale; e Abandoned Art In Decay  attraverso cui Roman Robroek (Paesi Bassi) ricorda allo spettatore

edifici in rovina ma ancora ricchi di bellezza decadente, impreziositi da affreschi, sculture o finiture che li rendono opere d’arte

Caosmosi

Sulle storie di migranti si concentra il prezioso lavoro di Paolo Youssef, la cui esposizione è stata inaugurata qualche ora dopo presso la Galleria Cavò in un incontro con Roberta Altin introdotto da Gabriele Pitacco.

Un’inaugurazione molto attesa dato l’afflusso di persone che hanno popolato l’interno di Cavò che non è riuscito ad accogliere tutti, inondando anche la stretta via in cui la galleria ha sede.

Caosmosi storie minime di nuomini novunque è un lavoro prezioso come ho già detto perché, come da intenti dello stesso Youssef,

non c’è islamofobia, non c’è razzismo, non c’è rivendicazione di frontiere o di un’apertura delle stesse.

non c’è un ritratto di amico vulnerabile di una certa narrazione politica, non c’è nemmeno un ritratto storico dell’immigrato

La mostra, sempre nelle parole dell’ideatore, è la rappresentazione iconografica di un simbolo, costruito in una fabbrica del caos per legittimare l’idea di emergenza tanto cara quanto necessaria all’esercizio del potere.

E’ inoltre la rappresentazione di quanto possano essere pericolosi questi stessi simboli, sia che abbiano le sembianze umane di un rifugiato che le sembianze divine.

Una mostra dedicata a chi non era presente, a chi ha provato a censurare l’esposizione e alla voglia di capire, fare, agire.

L’esposizione, tutta in bianco e nero, si inserisce in una serie di incontri sulla “cartografia del corpo sociale” che continueranno fino all’8 Novembre.

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