PROMETTO CHE RITORNO DI ROBERTO MACCARONI

Con Emergency in Africa e in Afghanistan

E’ il 2010 quando Roberto Maccaroni, infermiere trentatreenne di Ancona, decide di partire in missione per Emergency con destinazione Sierra Leone, uno degli stati più tormentati d’Africa, noto soprattutto per l’epidemia di ebola e l’indigenza della popolazione. 

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Prometto che ritorno (Vydia Editore) è l’intenso diario dei suoi viaggi in Africa e in Afghanistan. Gli incontri, le storie, spesso drammatiche, a volte comiche, il cambiamento personale dovuto a esperienze vissute sulla propria pelle fuori dalla zona di comfort, sono una testimonianza emozionante e potente, un monito per noi occidentali, che l’autore sintetizza con la frase di Ennio Flaiano scelta come incipit del libro “Quando l’uomo non ha più freddo, fame e paura, è scontento”.

Perché hai scelto di diventare un operatore di Emergency?

Diciamo che la “fregola” di partire per una missione di lavoro all’estero è una caratteristica che accomuna molti neolaureati delle professioni sanitarie. A fare da substrato a questo c’è di sicuro la giovane età, un entusiasmo ancora intatto per il proprio lavoro, la situazione familiare ancora abbastanza libera e soprattutto un certo fascino per mete che hanno un qualcosa di esotico, frequentemente luoghi del cosiddetto “terzo mondo”. In questo io non facevo eccezione.

In più c’era già un iniziale ma convinto interesse per Emergency, conosciuto con il libro “Pappagalli Verdi” del dottor Gino. Molte sono ed erano le organizzazioni che si occupano di medicina in zone di guerra o di estrema povertà ma di Emergency mi hanno sempre colpito profondamente i principi a cui si ispira, quell’idea cioè che le cure di un malato o di un ferito non possano differire a seconda della latitudine a cui le si esercita. Troppo spesso si ha l’idea che in certi paesi ci si possa accontentare anche di una medicina “di risulta”, in cui il semplice (seppur nobile) offrire un qualche aiuto sia l’obiettivo.

Emergency ha sempre ritenuto, in ogni posto del mondo in cui ha operato e opera, che la medicina dovesse avere le stesse macro-caratteristiche su cui si basa la nostra, quella di cui tutti noi usufruiamo e ci fidiamo: completa gratuità ed eccellenza delle cure.

Questa cosa mi convinse allora e mi convince tanto più oggi che di Emergency faccio parte.

In uno dei capitoli racconti che questa esperienza ti ha cambiato. Secondo te è un mutamento transitorio, oppure le situazioni che hai vissuto sono andate a smuovere qualcosa di più profondo?

Le esperienze in certi luoghi e in certe situazioni non sono e non possono essere solo professionali, ci si porta dietro da casa e la si mette in gioco, anche la propria umanità, dote indispensabile in molti lavori, in particolare in quella di sanitario.

Si arriva in quei posti inevitabilmente con la propria corazza, spesso costruita in anni di certezze casalinghe, e durante i mesi di contatto con certe realtà piano piano la corazza si disintegra, lasciandoti nudo.

E in quella condizione di nudità si ricevono pugni nello stomaco e carezze dolcissime che lasciano segni indelebili, trasformazioni irreversibili.

Nel mio caso, e credo in quello di molti, io sono una persona che si piace di più rispetto a quella che era prima, che è diventata certamente più completa. Non ci fosse stata questa parte del mio vissuto sarei rimasto come l’albero Pictor di Herman Hesse.

Nel tuo libro narri molte storie drammatiche. Qual è la vicenda che ti ha colpito di più?

Nel libro ne racconto alcune, è sempre molto difficile dire quale mi abbia colpito più di un’altra.

Ce n’è una però, o meglio la stessa che ho visto ripetersi molte volte, che ne libro descrivo solo parzialmente, per impressioni generali, senza mai entrare nei dettagli, e sono le mass casualties in Afghanistan, a Lashkar-gah, le maxiemergenze in cui per un’esplosione arrivano contemporaneamente decine di feriti, spesso civili. Scene in cui al cancello dell’ospedale arrivano 30, 40 a volte 80 feriti.

Quelle situazioni mi hanno colpito profondamente, forse più delle tante altre, e paradossalmente sono proprio quelle che non sono mai riuscito a descrivere e neppure a narrare verbalmente.

Come raccontare i rumori, gli strazi, gli odori fortissimi, la macelleria, gli sguardi, il senso di inadeguatezza?

Ammetto di non avere sufficiente capacità descrittiva.

E forse è pure giusto risparmiare al lettore la violenza di certe immagini.

Le tue impressioni sono scritte con pathos, ma anche con tanta ironia. Si è rivelata forse una qualità necessaria?

Diciamo che per fortuna i mesi di missione non sono per forza un continuo di scene di sofferenza. Ci sono i rapporti tra noi del personale, i momenti vissuti al di fuori dell’ospedale, anche se spesso obbligatoriamente a casa, gli aneddoti divertenti che pure in un luogo di cura accadono e che secondo me è stato giusto raccontare.

Di sicuro l’ironia è una specie di lente che cerco sempre di infilare nello zaino ogni volta che parto, e con cui spesso cerco di guardare le cose, anche le più drammatiche.  Potrebbe anche sembrare una forma di cinismo ma non credo lo sia, penso piuttosto che sia una forma di difesa, probabilmente è l’unico pezzettino di quella corazza di cui parlavo prima che rimane a coprire le pudenda.

D’altronde se è necessaria (e io credo lo sia) alle nostre latitudini per alleggerire i momenti di avversità, figuriamoci in quei posti.

Nel titolo dici “prometto che ritorno”. Ogni promessa è debito…

Già. Una promessa che non costa fatica, nel mio caso.

Una promessa fatta in particolare alle persone a cui il libro è dedicato: la gente di quei posti.

In particolare i miei colleghi, i medici, gli infermieri, i tecnici, i logisti, i giardinieri, i fisioterapisti afghani, sierraleonesi, libici o centrafricani. Gente che negli anni mi è diventata amica.

La promessa è quella di tornare a stargli vicino, di tornare a cercare di essergli utile.

Di cercare, seppure in maniera insufficiente, di restituire almeno una parte di quella fortuna che ho avuto nel nascere dalla parte “giusta” del mondo, fortuna che non ho meritato ma che mi è semplicemente capitata. Così come a loro, invece, è capitata la sfiga.

E poi il titolo era volutamente paraculo… serviva  anche a rassicurare i miei familiari, senza i quali potrei permettermi esperienze del genere, e che subiscono la mia assenza e la preoccupazione legata ad essa.

Insomma, agli uni ho detto che era per loro, agli altri ho detto che era la stessa cosa.

Speriamo non si parlino.

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