Nessuno ha veramente voglia di parlare di violenza sulle donne la domenica pomeriggio. Anzi, solitamente nessuno ha davvero voglia di farlo in generale: è pesante, faticoso, deprimente. È una conversazione importante che è necessario avere, ma non per questo non ci riempie di tristezza e rabbia. E di sicuro queste non sono emozioni che abbiamo voglia di vivere nell’ultimo stralcio del nostro weekend.

Sembrava essere molto consapevole di tutto questo Valeria Perdonò, che sul palco di Fucina Culturale Machiavelli a Verona la scorsa domenica pomeriggio  ha portato Amorosi Assassini, il suo monologo sul femminicidio.

La scelta dell’ironia

I primi momenti sono cupi: le luci scure ci rivelano solo l’attrice. Seduta e raccolta, parla dal punto di vista glaciale di una donna chiusa in un sacco e buttata nella spazzatura.

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All’improvviso però tutto cambia: le luci da fredde si fanno calde, l’attrice scatta in piedi interrompendo la sua macabra narrazione e domanda al suo pianista e collega di scena – e di rimando al pubblico – ‘è così che lo dovrei fare? È così che lo dovrei raccontare?’ Questa è la prima sorpresa della serata per il pubblico, abituato ad anni di teatro civile dalle musiche malinconiche e i monologhi sospirati.

Valeria Perdonò sceglie invece l’ironia. Una scelta di stile che presto si rivela di contenuto, perché quella di Perdonò è triste ironia, che mette in risalto le contraddizioni, che mette in discussione i modi con cui narriamo la violenza.

Un metateatro che si fa metanarrazione della nostra società, che si interroga sui fatti partendo da come ce li raccontiamo. Un dialogo continuo quello proposto dal testo della Perdonò, quasi socratico, che si interroga incessantemente tanto con il pubblico che con il pianista Marco Sforza, che grazie alla sua musica e alla sua presenza scenica fornisce al pubblico un necessario e ben accetto comic relief.

Il grottesco del reale

E il fatto al centro di tutto è quello vero di cronaca nera di Francesca Baleani, picchiata ferocemente dall’ex-marito e – creduta morta – viene gettata in un cassonetto.

Francesca invece sopravvive, solo per poi assistere alla farsa giudiziaria che diventa il processo al suo illustre carnefice, ex-direttore del teatro di Macerata. Una storia di violenza atipica rispetto alle nostre preconcezioni, perché  si perpetua in un ambiente ricco e colto.

Ed è quando si introduce una variabile diversa che vengono alla luce le contraddizioni sommerse, i non detti taciuti.

In un gioco farsesco, al limite tra teatro e vita, la vittima diventa lui: uomo di cultura che ha sofferto di uno sbandamento temporaneo, un povero martire delle sue passioni.

Su questo gioco delle parti malato e grottesco si sviluppa e si avviluppa la riflessione dello spettacolo tutta incentrata sulle rappresentazioni.

Le nostre rappresentazioni, quelle della nostra società, quelle che abbiamo ereditato dal passato fin dall’Antica Grecia, fin dai filosofi che hanno fondato tutta la storia del nostro pensiero.

Interrogarsi sempre

Ed è questa la forza di questo teatro civile, uno che smette di raccontare solo il cosa – un cosa patetico e di sofferenza che non può che accendere solo i nostri cuori; e diventa invece un teatro civile che si interroga sul perché – votato invece ad azionare le nostre menti.

 

Un perché poi troppo complesso, che si dispiega sul palco senza una vera organicità, in un vagare a volo d’uccello confuso, che non può e non vuole darsi un rigore narrativo o una risposta. Lasciando invece lo spettatore perso in un mal di mare di citazioni, riferimenti, suggestioni. Troppe cose, tutte confuse, nessun criterio a metterle in ordine.

Lo spettacolo quindi, secondo questa logica, si snoda in un susseguirsi non lineare di narrazione, meta narrazione, dialoghi con il pubblico e numeri musicali.

Una performance a tutto tondo che costringe l’attrice al movimento continuo, a un’ora  e mezza di intensa immersione, oscillando in modo schizofrenico dal riso alla commozione, da un monologo accorato a un ballo sensuale.

Sul palco solo un tavolo, una sedia, pianoforte, clarinetto e l’energia magnetica di Valeria Perdonò: non serve altro.

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