Il mese di dicembre al Miela si è aperto con Seun Kuti e gli Egypt 80, che hanno fatto ballare Trieste al ritmo travolgente e festoso dell’ Afrobeat.

Ottima la scelta del teatro di togliere le sedie per l’occasione perché la musica dell’erede del leggendario Fela Kuti è un vero e proprio invito ad una danza celebrativa e catartica in cui il singolo torna a far parte di una comunità che si dimena, freme e scalpita per difendere i propri diritti e, allo stesso tempo, gode delle ricchezze che la propria cultura gli offre.

L’Afrobeat ama il popolo che gli ha dato vita, così come la fondazione di questo genere un po’ funky, un po’ insolente, è stata la dichiarazione d’amore di Fela Kuti verso il suo paese, la Nigeria, e più in generale verso i diritti fondamentali dell’uomo (dai quali la donna però resta esclusa). In un’intervista a Repubblica il batterista di Fela Kuti, Tony Allen, definisce l’Afrobeat “una fusione di tutti i ritmi possibili.

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Quando suono, non suono jazz, non suono highlife (la musica della zona costiera del Ghana emersa negli anni Venti come fusione di ritmi indigeni, marce militari occidentali, inni religiosi e ballate marinare [n.d.r.]), non suono funk, ma un insieme di tutto questo. Lo mescolo nella mia mente e quello che ne viene fuori è una combinazione”.

Per capire meglio la storia di questo stile musicale è imprescindibile conoscere per sommi capi la storia di colui che ne è stato l’inventore, il “Black President”, Fela Kuti (1938—1997). Il musicista nigeriano, formatosi dai vent’anni in poi presso il Trinity College of Music di Londra, dove studia la tromba e impara a suonare un jazz convenzionale, col diploma in tasca fa ritorno al suo paese natale e fonda un gruppo, i Koola Lobitos, in cui compaiono i primi membri fissi del futuro gruppo “Africa 70” che danno vita ad un ibrido highlife jazz.

Nel 1969, mentre in Nigeria imperversa la guerra civile a causa del tentativo secessionista delle province sudorientali del paese, Fela Kuti giunge negli U.S.A. assieme al suo gruppo ed entra in contatto, tra gli altri, con Sandra Akanke Isidore, attivista del movimento dei Black Panthers che gli fa conoscere la strada intrapresa da leader afroamericani come Martin Luther King e Malcolm X e lo stimola verso lo sviluppo di una maggiore coscienza razziale.

Di ritorno in Nigeria, i Koola Lobitos, ormai conosciuti come “Fela Kuti & The Africa 70”, hanno già registrato tre album e la loro musica è definitivamente Afrobeat, un mix letale di highlife africano, jazz, soul e funk. Ma è letale anche e soprattutto perché è un’arma politica, infatti Fela si esibisce nel suo locale a Lagos, lo Shrine, e critica aspramente e apertamente il governo nigeriano, facendo nomi e cognomi. Sfida il dittatore Olusegun Obasanjo alle elezioni, il che gli vale il soprannome “The Black President”.

Scrive canzoni come “Zombie” in cui si prende gioco dei militari al governo trattandoli come dei dementi (“Uno zombie non va da nessuna parte se non gli dici dove andare / Uno zombie non si ferma se non gli dici di fermarsi / Uno zombie non cambia direzione se non gli dici in che direzione andare / Uno zombie non pensa se non gli dici di pensare”). Fonda addirittura una comune indipendente dal regime di Obasanjo , “La Repubblica di Kalakuta”.

Queste provocazioni scatenano varie reazioni dal governo tra le quali l’incursione del 1978, quando i militari distruggono la comune, arrivano quasi ad uccidere Fela, stuprano alcune delle sue 27 mogli e gettano dalla finestra sua madre che, dopo tre mesi di coma, muore. Ma la musica di Fela è inarrestabile e non smette di prendersi gioco di chi si illude di poter mettere a tacere il portavoce di un’intera comunità.

Poco tempo dopo, infatti, con la canzone “Coffin for Head of State” (1981) il musicista nigeriano , seppur “zoppicante”, dimostra di essersi rialzato, e racconta di un’incursione fatta da lui e altri militanti del suo partito, il Nigerian Movement of the People, nei pressi della residenza di Obasanjo, sulla cui porta ha depositato la pesantissima bara della madre. Insomma, il Presidente Nero è pura dinamite per qualsiasi regime che limiti la libertà di espressione.

Il suo biografo Carlos Moore sostiene che “fino al suo ultimo respiro, Fela è stato un fiera spina nella carne di ogni despota, militare o civile, che occupò a turno la presidenza in Nigeria, una qualità che ha reso la sua condizione quasi insostenibile.” Infatti se è vero che la vita di Fela è praticamente un romanzo di avventure, le sue pagine finiscono inaspettatamente il 2 agosto del 1997 quando muore per aver contratto l’AIDS. Il giorno del suo funerale attorno alla sua bara ci sono all’incirca cinquantamila persone.

Benissimo, e cosa serviva sapere tutto questo se il concerto di domenica era del figlio di Fela, Seun Kuti?

Beh, perché Seun si è esibito con gli Egypt 80, la band di suo padre (poco tempo prima di morire Fela ha rinominato così la band), composta di 13 elementi e capitanata da Baba Ani, il sax baritono che ha accompagnato Fela fin dagli esordi. E soprattutto perché tra i numerosi figli del Black President si contano due musicisti e Seun, il minore tra i due, è quello che ha deciso di abbracciare l’etica sociale e culturale del padre, scagliandosi contro la sofferenza della Nigeria, afflitta da corruzione politica e terrorismo jihadista.

Non a caso domenica Seun ci ha fatto ballare anche a ritmo della memorabile Zombie, una canzone che per le sue conseguenze violente ci ricorda come la combo di musica e satira possano diventare armi letali contro il dispotismo.

Sei album all’attivo e una nomination ai Grammys per l’ultimo, Black Times (2018), la musica di Seun è un invito festoso a comprendere la propria storia e a ribellarsi per essere liberi.

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