Il primo agosto, il mito di Medea è tornato in vita sul palcoscenico de I Solisti del Teatro grazie alla regia di Manuel Giliberti e all’ispirazione di Antonio Tarantino

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Tarantino ha scelto di riscrivere il mito di Medea, anzi di ridipingerlo attraverso le parole. Parole scelte e tragiche, parole comuni e graffianti: il linguaggio è la sua tavolozza multiforme per rappresentare una vicenda mitica e quotidiana, uno dei molti aspetti della condizione femminile.

Antonio Tarantino, pittore e scrittore, è una personalità fra le più interessanti di questo passaggio di secolo, sembra essere uno degli ultimi intellettuali appartati e solitari. Destinatario del sostegno statale (leggi Legge Bacchelli) come tanti altri illustri colleghi, da Alda Merini a Anna Maria Ortese, a conferma del fatto che, almeno in Italia, non sempre alla competenza e alla qualità del  prodotto artistico è destinato il successo economico, Tarantino ha vissuto e creato le sue opere in quel territorio di mezzo, fra l’élite intellettuale e i bassifondi.

Dalla frequentazione di questi due mondi nasce il suo stile, un teatro in cui la parola fa il personaggio, in cui la manipolazione della parola stessa crea il dramma. In bilico fra ora e sempre, tempo dell’attualità, della critica da una parte e tempo del mito, eterno ed immutabile, dall’altra, la sua Medea è appunto duplice, quasi bipolare. Se pure è alto il suo linguaggio, cade a volte in espressioni volgari e richiami alla storia contemporanea (Kabul e i viaggi della speranza), mentre accanto a lei la Vigilatrice parla attraverso la lingua quotidiana, quella del popolo, di cui condivide la logica di esclusione del diverso.

La regia di Manuel Giliberti divide a sua volta la scena in due parti, separandole solo con una catena sottile, simbolo della prigionia. Da una parte la vigilatrice, dall’altra la vigilata: entrambe vittime di un carcere ingiusto, che le esclude dalla vita. Entrambe vittime degli uomini, una li uccide (forse), l’altra li esclude. Entrambe donne.

L’allestimento scenico non dà indicazioni, resta piuttosto simbolico se non scarno, gli oggetti di scena sembrano trasandati e inadatti, eppure generano quel senso di instabilità, di non-luogo, di assenza di riferimenti funzionali al dramma. Pure gli abiti ci comunicano questa sensazione: Medea è drappeggiata, la Vigilatrice veste una generica divisa verde militare, ma nulla fa pensare a un tempo preciso.

In questa instabilità emotiva, storica e sociale, si fronteggiano i due personaggi mirabilmente interpretati da Cristina Borgogni (Medea) e Annalisa Insardà (Vigilatrice). Ieratica e multiforme la prima quanto incisiva e grottesca la seconda, tanto intensamente intrecciate fra loro nel dramma del carcere, da risultare, alla fine, una sola identità.

Le musiche di Antonio di Pofi, poi, hanno il pregio di arricchire lo spettacolo laddove le luci lo hanno spesso penalizzato.

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