Still Alice: un film che punta dritto all’Oscar

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Alla fine della proiezione di questo film e dopo qualche lacrima, il mio pensiero è tornato ad una citazione di Luis Buñuel che lessi tempo fa sfogliando un testo di Oliver Sacks. Si trattava di una raccolta di casi clinici legati per lo più a problemi di identità. Buñuel scriveva così:

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“Si deve incominciare a perdere la memoria, anche solo brandelli di ricordi, per capire che in essa consiste la nostra vita. La nostra memoria è la nostra coerenza, la nostra ragione, il nostro sentimento, persino il nostro agire. Senza di essa non siamo nulla”.

Per i più curiosi, il libro di Oliver Sacks è intitolato “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello”.

Still Alice è stato finora uno dei film più apprezzati di questa edizione del Roma Film Festival.

La storia è tratta dal romanzo Perdersi’ della scrittrice americana Lisa Genova. Il destino beffardo ha creato un anello di congiunzione tra la malattia di cui questa vicenda narra, l’Alzheimer, e la SLA diagnosticata a Richard Glatzer poco prima che gli venisse proposto di lavorare sulla sceneggiatura. Due malattie degenerative che non lasciano alcuno scampo, ma che in questo caso hanno dato vita ad una piccola rinascita.

Il film racconta il baratro nel quale precipita Alice Howland (Julianne Moore) quando scopre di essere affetta da una forma precoce di Alzheimer. La bravura dei due registi (Richard Glatzer e Wash Westmoreland) è quella di aver dato una grande dignità alla malattia eliminando qualsiasi banalità o retorica.

Il focus si sposta completamente su Alice: la progressiva perdita di memoria e dunque della sua identità viene vissuta attraverso i suoi occhi, mentre restano in secondo piano le ripercussioni familiari.  Una professoressa di linguistica come Alice che ha lavorato per anni sulla comunicazione e sul valore delle parole si sente minata nel profondo e cade a pezzi pian piano. Combatte però, si difende e lo fa ricorrendo anche alla tecnologia, cioè scrivendo sul suo cellulare frasi che possono essere utili a ricordare.

Se da un lato ci fa piacere che l’attenzione sia sulla Moore (così possiamo godere pienamente delle sue grandi doti interpretative), dall’altro ci dispiace non poter apprezzare del tutto le potenzialità del resto del cast (Alec Baldwin, Kate Bosworth, Hunter Parris e, soprattutto, Kristen Stewart nel ruolo della figlia minore, Lydia).

La regia non ha un tratto distintivo particolare così come l’evolversi della vicenda non ha scene di grande impatto. Tuttavia, Still Alice colpisce soprattutto per il tatto e la delicatezza con cui si affronta la malattia, in questo caso resa ancora più drammatica dalla giovane età della donna  appena cinquantenne.

Julianne Moore è straordinaria, emozionante ed intensa nei suoi momenti di lucidità quanto in quelli di vuoto assoluto. Westmoreland e Glatzer scelgono (e noi lo apprezziamo) di non affrontare la fase finale della malattia confermando fino all’ultimo di aver scelto la sensibilità come linea guida.

Purtroppo l’attrice americana non ha mai vinto l’ambita statuetta, nonostante ben quattro nomination agli Oscar. Dopo un’interpretazione così, non vorremmo vedere dipinta sul suo viso la stessa delusione di Leonardo Di Caprio, rimasto a bocca asciutta l’anno scorso per l’ennesima volta quando ormai sembrava fatta. Le auguriamo di cuore che questa sia per lei la volta buona.

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