The Bosnian Identity. La fotografia di Matteo Bastianelli indaga le conseguenze della guerra nella ex Jugoslavia

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17 anni fa terminava il conflitto nei territori della Ex Jugoslavia lasciando una profonda ferita nell’anima del vecchio continente. Cosa è successo durante questi 17 anni? Quali trasformazioni ha subito questo territorio così vicino a noi ma, allo stesso tempo, così distante? Matteo Bastianelli, un giovane fotoreporter romano, ha analizzato, in lungo viaggio in Bosnia, le conseguenze della guerra dove ha trovato un paese corroso dalle diverse identità etnico – religiose.
The Bosnian Identity è il frutto di un lavoro complesso dove le fotografie di Matteo lasciano allo spettatore la visione di una realtà sfumata, tracce invisibili di profonde cicatrici che hanno segnato e marchiato il futuro di un popolo.

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Matteo vorrei cominciare questo incontro dai tuoi inizi. Come sei arrivato al fotogiornalismo?

Ho iniziato come reporter per alcuni quotidiani nazionali. Successivamente, ho capito che non mi interessava più lavorare in questo settore perché l’informazione viene masticata troppo velocemente e allora mi sono chiesto come poter approfondire le tematiche a cui volevo dedicarmi. Dopo l’iscrizione all’albo dei giornalisti, ho iniziato a frequentare un master di fotogiornalismo alla Scuola Romana di fotografia e, contestualmente, ho cominciato ad occuparmi di reportage a sfondo sociale sia in Italia che nella ex Jugoslavia. Ho cercato di elaborare progetti a lungo termine che avessero lo scopo non solo di catalizzare l’attenzione, ma che fossero un percorso in cui i protagonisti della narrazione sono le persone. Un modo di fotografare e di relazionarsi con chi si ha di fronte dove c’è la grande possibilità di andare oltre le apparenze. Alcune cose escono fuori solo col tempo, soprattutto quando si decide di raccontare qualcosa come le conseguenze di una guerra.

Perché la scelta è caduta nei territori della ex Jugoslavia? Quale esigenza ti ha portato a sondare la realtà dei popoli balcanici?

Come la maggior parte delle persone che vivono dall’altra parte dell’Adriatico, l’ex Jugoslavia è un paese che sentiamo molto distante nonostante la vicinanza territoriale. La curiosità, la voglia di andare oltre una conoscenza rarefatta fornita dai media, mi ha portato verso quei luoghi. La prima volta sono partito grazie al coinvolgimento di un’associazione onlus che opera negli ospedali pediatrici della Croazia. È stato il primo lavoro dove ho collaborato come fotografo, iniziando a capire il contesto socio – economico presente nei territori balcanici. Il panorama culturale è molto complesso, c’è bisogno di analizzare in profondità i retroscena che hanno caratterizzato l’idea puramente utopica di far condividere nello stesso territorio popolazioni molto differenti dove esistono religioni, tradizioni e memorie fortemente distanti.
La cosa che mi ha più affascinato di questa gente, al di là del falso immaginario di terra sanguinaria che ci è stato tramandato, è il forte senso di accoglienza che ho scorto tra le persone.
Conclusa l’esperienza negli ospedali croati, ho iniziato a ragionare sull’idea di un lavoro in Bosnia, la nazione più colpita dal conflitto. È stato un viaggio itinerante, la mia base era Sarajevo ma ho vissuto in varie zone del paese. Il progetto è andato avanti per quattro anni dal 2009 al 2012, sfociando nella pubblicazione di The Bosnian Identity, edito da Postcart, e nella realizzazione di un film documentario che verrà distribuito in Italia e all’estero.

Vorrei capire, al di là del tuo lavoro che ho molto apprezzato, quali sono state le tue impressioni personali di questo territorio che, come giustamente sottolinei, sembra così distante dal nostro paese. Cosa ti ha lasciato il tuo viaggio itinerante in Bosnia?

Mi ha lasciato diverse sfumature che porto dentro. Non è stato facile vivere e lavorare in un contesto del genere. Ho deciso di narrare un luogo dove non sono stato un freddo osservatore esterno ma ho cercato di immergermi in questa realtà, nelle sue cicatrici che sono rimaste anche un po’ su di me. Per quanto riguarda l’approccio visivo ed estetico, spesso prediligo una fotografia che non mostri tutto: di base i miei scatti documentano avvenimenti, come quando, ad esempio, ho testimoniato il lavoro della Commissione Internazionale impegnata nel ritrovamento delle persone scomparse durante la guerra. Il mio progetto non vuole cogliere solo questo livello di documentazione ma sente l’esigenza di immergersi nelle vite delle persone che ho deciso di raccontare. In qualche modo è come se volessi andare oltre per lasciare allo spettatore la formulazione di un giudizio personale, alcune cose sono solo accennate, alcune presenze vengono appena intraviste.

Quello di cui stai parlando è l’aspetto che più mi ha colpito del tuo lavoro. Le tue foto sono delle tracce effimere che portano lo spettatore ad interpretare in modo soggettivo le realtà che hai narrato. Ciò che mi ha più incuriosito è stata anche la lettura di alcuni testi presenti nel tuo libro. Hai avuto la possibilità di incontrare le giovani generazioni bosniache che hanno vissuto la guerra negli anni dell’infanzia. Come vivono le cicatrici del conflitto Jugoslavo?I giovani sentono l’esigenza di ricordare quello che è accaduto?

La maggior parte delle persone che ho incontrato in Bosnia preferiva non parlare della guerra. Questo non solo tra chi l’ha vissuta da spettatore o da assediato, ma anche tra i veterani del conflitto perché la sensazione è che ci sia la voglia di dimenticare quegli anni, di rimuovere il ricordo che è un fardello pesante da sostenere. Per assurdo è come se il tempo si fosse fermato in quei luoghi. La mia scelta di utilizzare il bianco e nero dipende da questo. Il mio lavoro non è un progetto sulla guerra, ma sulle conseguenze della guerra. Sono passati 17 anni dalla fine del conflitto ma c’è ancora l’impressione di vedere un paese che sembra uscito ieri da questo disastro. La Bosnia è una nazione bloccata: il 40% della popolazione è disoccupata, non esistono infrastrutture, la maggioranza delle fabbriche ha chiuso, lo stato è in balia di se stesso e degli investitori occidentali. È complicato guardare oltre e ragionare su un possibile futuro. Tanti ragazzi ci stanno provando ma non hanno l’appoggio di uno stato forte. La Bosnia è l’unico paese al mondo retto da una presidenza tripartitica che genera un’indiscutibile ingovernabilità.

I giovani che sono cresciuti durante il periodo del conflitto, vedono quello che è accaduto con sentimenti contrastanti. È un panorama variegato e complesso, ho cercato di raccontarlo andando in profondità come quando sono entrato all’interno della comunità mussulmana. Uno dei ragazzi che ho seguito, Ammar, è l’esempio di mentalità europea, parla quattro lingue e i suoi amici più cari appartengono ad etnie diverse. Ammar è il veicolo di un messaggio positivo che non si presta alla retorica dello scontro razziale.

Le distanze razziali sono il problema che ha generato il conflitto in Bosnia. Il paese è diviso tra la federazione di Bosnia Erzegovina, dove la maggioranza della popolazione è mussulmana e cattolica, e la Repubblica di Srpska, un territorio composto da quelle aree coinvolte durante la guerra da una sostanziale pulizia etnica. I profughi bosniaci non sono mai rientrati nella Repubblica Srpska, il paese è popolato unicamente da serbi, in questi luoghi non c’è mai stato un reale processo di pace. Questi territori perpetuano i loro rancori, la memoria storica è di fatto un agglomerato di diverse versioni che non contribuiscono a concepire un passato condiviso ma che anzi alimentano i risentimenti e le avversioni delle differenti etnie coinvolte nello scontro. Non c’è ammissione di responsabilità e gli organi internazionali, come il Tribunale per i crimini in Ex Jugoslavia che ha sede in Olanda, non fanno che incentivare i sentimenti di vendetta in seno al popolo balcanico. Un quadro molto complesso che i media occidentali non conoscono e non analizzano.

Ho notato che è come se avessimo dimenticato il conflitto dei Balcani, abbiamo abbandonato a se stessi paesi che concretamente hanno la necessità di essere salvaguardati proprio in nome della pace e della libertà che vuole contraddistinguere l’identità dell’Unione Europea. Mi chiedo come sia possibile ignorare un tassello fondamentale della nostra storia, eppure la guerra dei balcani è una cicatrice profonda in seno al nostro continente.

Spesso il giornalismo sta perdendo la sua funzione primaria proprio perché è diventato uno strumento al servizio del sensazionalismo e del gossip. Un fotoreporter ha la necessità, però, di relazionarsi con gli organi di stampa ed io in Italia collaboro con L’Espresso perché è una delle rare realtà giornalistiche dove è possibile approfondire una tematica illustrando il percorso che hai affrontato nel tuo lavoro.
Gigi Riva, caporedattore dell’Espresso, ha vissuto in prima persona l’assedio di Sarajevo e ha curato la prefazione del mio libro. Al giorno d’oggi una notizia viene consumata nel giro di poche ore, io cerco di andare oltre e di costruire un reportage che possa essere testimone concreto di un evento.

Matteo dopo aver narrato l’identità della Bosnia cosa ti aspetta in futuro?

Sto lavorando in Croazia e in Serbia per due nuovi progetti. Dopo l’identità della Bosnia voglio parlare dell’eredità della Serbia e dell’anima della Croazia. Il mio è un grande progetto sulle nazioni della Ex Jugoslavia, voglio raccontare tutti i paesi coinvolti nel conflitto balcanico. La democratizzazione della fotografia ha portato alla visualizzazione quotidiana di migliaia di immagini che ci sommergono, mi chiedo cosa rimane realmente e per rispondere a questo credo che ci sia bisogno di una fotografia che non sia il risultato di un semplice gesto manuale. La foto per me rappresenta la punta di un iceberg, c’è tutto un mondo sommerso che racchiude l’ideazione, la realizzazione, la progettualità legata ad un lavoro. Nulla è improvvisato perché è importante essere consapevoli di quello che si sta facendo lasciando che le persone incontrate durante un percorso possano arricchire la propria visione, mettendo in gioco ogni volta il contenitore delle nostre certezze.

THE BOSNIAN IDENTITYdi Matteo Bastianelli

edizioni Postcart 
208 pagine
B&W 118 fotografie
Realizzazione: Ottobre 2012
Hardcover

info: http://www.thebosnianidentity.com/ita/filmcrew.html

http://www.thebosnianidentity.com/eng/

http://www.matteobastianelli.com/

 

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