UN PICCIONE SEDUTO SU UN RAMO RIFLETTE SULL’ESISTENZA

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Sam e Jonathan, due venditori di travestimenti e articoli per feste, girano a cercare clienti e a riscuotere fatture non pagate. Nel frattempo, una varia umanità si rifocilla nei bar, si telefona ripetendo più volte le stesse frasi, attende autobus alla fermata, mentre Carlo XII di Svezia ritorna con le sue armate dalla disfatta di Poltava.

Già la sinossi rende conto della particolarità del film con cui Roy Andersson ha stravinto il Leone d’Oro alla 71ma Mostra del Cinema di Venezia, lo scorso settembre. Inutile perfino cercare una vera e propria trama, anche se le figure dei due venditori sono centrali: il film infatti si divide in 39 tableaux vivants di varia lunghezza, ognuno a sè stante rispetto agli altri, ognuno un potenziale cortometraggio. I personaggi racchiusi in ogni sezione non necessariamente hanno a che fare con quelli delle altre, visto anche che i due protagonisti spesso non sono in scena. E perfino i piani storici si sovrappongono, visto che in una contemporaneità stralunata appare il re di Svezia della guerra dei 30 anni, e pare che nessuno si scandalizzi di tutto ciò.

Parte finale di una trilogia i cui altri vertici sono Canzoni dal secondo piano (2000) e You, the living (2007), entrambi acclamati a Cannes, quest’opera estremizza l’ironia da teatro dell’assurdo, tipica di Andersson, sottolineata dalla recitazione teatrale di attori in stato di grazia, e ne cristallizza lo stile visivo in un ossimorico “dinamismo statico”: i personaggi vivono all’interno di scenografie create e fotografate come quadri di Otto Dix e Georg Scholz, innovatori tedeschi a cavallo fra le due guerre, in una sorta di super-realismo astratto e, incredibilmente, del tutto concreto.

E’ l’assurdità del vivere civile a essere messa in primo piano e alla berlina, a volte con un sorriso di compatimento, a volte con uno sberleffo amaro. E’ la ricerca di comprensione e amore, la dolcezza del ricordo che nasce dal reiterarsi di una canzone, la tensione verso un’impossibile razionalità. E la mano di Carlo XII, che si posa su quella di un barista inerte e imbarazzato, non è diversa nell’intenzione dalla bocca di Lotte la barista zoppa che vende grappini per baci: siamo soli, al mondo, anche insieme agli altri, e come possiamo essere felici?

Il piccione del titolo vive impagliato in un museo, e gli tocca osservare immobile i visitatori frettolosi che ne guardano l’etichetta per capirlo meglio. Siamo forse diversi, noi esseri del pianeta Terra? Noi “homo sapiens” che telefoniamo a un parente, noncuranti dei dolori di una cavia da laboratorio, noi pure cavie di laboratori gestiti da altri esseri che neppure vediamo o comprendiamo?

Andersson col riso non fustiga i costumi: non è un moralista, né un moralizzatore, solo un entomologo che, con pazienza scientifica, e il divertito incedere di un Kaurismaki più sornione, certifica l’assurdità dei nostri tentativi di cercare un senso all’esistenza.

Un film di difficile presa, ma da cui non è semplice staccarsi. 

Regia: Roy Andersson; Con: Holger Andersson – Nils Westblom – Charlotta Larsson – Viktor Gyllenberg – Lotti Tornros; Sceneggiatura: Roy Andersson; Fotografia: Istvan Borbas – Gergely Palos; Scenografia: Ulf Jonsson – Julia Tegstrom – Nicklas Nilsson – Sandra Parment – Isabel Sjostrand; Montaggio: Alexandra Strauss; Produttore: Pernilla Sandstrom; Distribuzione italiana: Lucky Red; Durata: 100 min.; Svezia, 2014

 

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