Viva la guerra! Intervista al giovane autore e regista Andrea Bizzarri

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È in scena dal 16 al 19 novembre al Teatro Marconi di Roma, Viva La Guerra, testo scritto e diretto da Andrea Bizzarri.

In scena, con il giovane autore, Alida Sacoor, Roberto Bagagli, Guido Goitre,  Matteo Montaperto.

Un pezzo di storia, quello della seconda guerra mondiale, raccontato con ironia e leggerezza da un gruppo di giovani artisti

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Un giovanissimo autore e regista che ha deciso di mettere in scena un pezzo di storia. Non accade spesso. Da dove nasce questa tua urgenza?

Bentrovati, a tutti! Come è scritto un po’ nelle note di regìa, dalla necessità di raccontare una storia con la “s” minuscola. Una storia popolata da antieroi, persone comuni che non trovano spazio nei manuali ma che, verosimilmente, descrivono meglio di chiunque altro l’atmosfera che si respirava nella Roma – e in tutta la penisola – in quegli anni. Un certo peso, inoltre, ha avuto la lettura delle lettere dei condannati a morte della Resistenza. Non traspare eroismo né, tanto meno, paura: spesso e volentieri raccolgono messaggi di speranza.

Ti va di raccontarci in breve la storia?

Quattro ragazzi salgono sulle montagne laziali – le alture della valle dell’Aniene, al confine fra Lazio e Abruzzo – con l’intento di sabotare un treno tedesco che di lì a poco passerà per la ferrovia ai piedi della stalla in cui si sono rifugiati. Proprio in questo ricovero, però, trovano una donna svenuta. Quel che viene dopo è tutto da scoprire, con un finale che rimescola completamente le carte in tavola. È importante però dire che i quattro non sono professionisti della guerriglia, anzi; assomigliano più a quattro sbandati che si misurano con qualcosa di inevitabilmente più grande di loro. L’equilibrio è molto precario e la confusione è dietro l’angolo.

Qual è il tuo personaggio? Qual è la caratteristica che più ti piace di lui e cosa cambieresti?

Mi piace che sia un uomo senza particolari pretese, ma dai sani princìpi. Vicino agli ambienti ecclesiastici che lavorano quotidianamente sul territorio, alle parrocchie e ai sacerdoti impegnati nella difesa della città occupata, è un quasi trentenne tutto d’un pezzo. Difetti ne ha, ma non cambierei nulla: il suo essere contradditorio mi affascina.

Non è un debutto. Come ha reagito il pubblico che ha già assistito allo spettacolo?

Senza essere immodesto, bene. È uno spettacolo che fa parlare di sé, e questo è un grosso punto a favore. Dà un’interpretazione sicuramente alternativa, rispetto a quella “istituzionale”, della Resistenza e genera interesse.

Un cast di giovani attori. Quali sono i problemi che incontra una giovane compagnia in questo momento storico?

Sì, problemi ce ne sono. Entrare in determinati circuiti che possano garantirti un numero consistente di repliche non è facile. Penso, però, allo stesso modo, che l’unico antidoto che esista è l’impegno. Nonostante tutto, l’occasione arriva, se si lavora bene..

Cosa cambieresti nel teatro italiano?

Non mi piacciono quelli che hanno sempre una propria idea risolutiva su qualsiasi argomento, quindi non mi sento di rispondere. Dico solo che, come tutti i problemi, anche questo ha una sua complessità che non è da sottovalutare. Il mantra per cui deve essere la politica ad aiutare le realtà teatrali non è il mio. Se vogliamo considerarla impresa, impresa dev’essere: l’attivo in bilancio non lo si può raggiungere soltanto con il FUS.

Quale attore ti piacerebbe dirigere e per quale regista ti piacerebbe lavorare?

In questo momento ho la fortuna di dirigere Crescenza Guarnieri e un formidabile gruppo di ragazzi in un altro spettacolo che debutterà in concomitanza con il nostro. Già posso ritenermi più che soddisfatto. A dire la verità, non ho mai pensato ad attrici o attori che vorrei dirigere. Mi piacciono molto gli interpreti che stupiscono, che trovano una forma alternativa nella recitazione, tanto da farti rimanere incollato alla poltrona. Lo stesso dicasi quando sono in veste attoriale. Avere un regista che ti stupisce è il desiderio più grande.

Il tuo sogno artistico più grande?

 Imparare, fino all’ultimo, da chi è più bravo di me.

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