Alla fine degli anni ’60, nella sua casupola sulla spiaggia losangelina di Gordita Beach, allo strafatto investigatore privato Doc Sportello si ripresenta davanti, come uscita dal nulla, Shasta Fay, sua ex fiamma, per ingaggiarlo in quanto preoccupata del destino del suo nuovo fidanzato, il miliardario Mickey Wolfmann, scomparso misteriosamente e all’improvviso. Lo stralunato Doc Sportello accetta l’incarico, dovendosi scontrare, oltre che con i ricordi e rimpianti, anche con servizi segreti, immobiliaristi senza scrupoli, avvocati specializzati in diritto marittimo, dentisti ricettatori,  strozzini, surfisti, truffatori, saxofonisti in incognito, un poliziotto suo amico e alter-ego e una misteriosa entità chiamata Golden Fang, posizionata su una nave al largo dell’Oceano.

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Inutile tentare di seguire la sinossi di un film del genere. Innanzitutto perché è tratto da un libro di uno dei più visionari scrittori statunitensi, Thomas Pynchon, cui non fanno difetto genio inventivo ed elefantismo narrativo; poi, se non soprattutto, perché la riduzione dell’omonimo romanzo è passata per le mani e per l’occhio di P.T.Anderson, un regista che, da Boogie nights in poi (e passando fra gli altri per Magnolia e Il petroliere), non ha mai avuto timore di creare opere bigger than life. Infine, perché sarebbe del tutto inutile: come spesso accade nei noir d’oltreoceano, la trama è solo un pretesto per parlare d’altro. Che in questo caso è una progressiva e ormai spudorata e distruttiva perdita dell’innocenza per un’intera nazione e un intero mondo, quello occidentale, che si è cullato nel sogno di farfalla di una rivoluzione dei costumi per poi svegliarsi, troppo poco tempo dopo, in un caos primordiale dove le certezze di un tempo, polverose ma granitiche,  sono state sostituite da droghe pesanti,  psicopatologie quotidiane, paranoie primordiali e piccoli omuncoli assetati di potere. Già dall’inizio Sportello è il sogno del flower power che si risveglia, con davanti un passato ritornato sotto le spoglie di incubo; a nulla servono le perverse fattezze di Shasta Fay, che come una Fata Morgana seduce, dispone e distrugge, se non per mostrare l’abisso in cui tutti quanti siamo caduti. Solo credere nell’impossibile può provare a salvarci, solo sognare a occhi aperti, lasciandosi andare a uno stream of consciousness il cui senso sta proprio nella sua insensatezza; e in quanto sospensione dell’incredulità, Shasta impersona il cinema stesso, che induce a gettarsi nel pericolo per trovare soluzioni a un mondo senza più logica.

La grandiosità dell’impianto di Anderson passa attraverso un onirismo di lynchiana memoria, ma con tratti meno fini a se stessi, meno gigioneschi e più rigorosi. Aiuta in ciò anche l’uso della voice off, la gentile e dolce Sortilège, unica vera amica del protagonista (e forse unico personaggio reale), che racconta la storia in un lunghissimo flash-back. Da dove parla Sortilège? Da quale futuro giunge la sua voce? Dagli anni ’70, violenti e nichilisti? O dagli ’80 reaganiani e consumistici? O da un oggi vacuo di valori?  Non vi è risposta a nessuna delle tante domande che pone il film, se non un lancinante rimpianto. E la rabbia per quel piccolo passato di gloria, che il sadismo di Anderson non ci fa nemmeno intravedere ma solo immaginare. Come un’infanzia che talvolta torna in superficie, addolcendoci le labbra e facendocele piegare in un sorriso amaro, sempre più amaro.

Il primo capolavoro del 2015, servito su un piatto per palati ultraraffinati.

VIZIO DI FORMA (Inherent Vice) – Regia: Paul Thomas Anderson – Con: Joaquin Phoenix, Josh Brolin, Owen Wilson, Katherine Waterston, Reese Witherspoon, Benicio Del Toro, Joanna Newsom – Sceneggiatura: Paul Thomas Anderson (tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Pynchon) – Montaggio: Lesley Jones – Fotografia: Robert Elswit – Musiche: Jonny Greenwood – Prodotto da: Joanne Sellar, Daniel Lupi, Paul Thomas Anderson – Distribuzione: Warner Bros. – Durata: 148 min. – USA, 2014

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