“Vojo tornà a casa”: la potenza dell’espressione universale di Ricci/Forte

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Si aspetta il proprio turno per entrare dentro uno spazio neutro, bianco, trasparente, dove cinque persone eseguono movimenti sincronici con un pettine in mano. Ci accompagnano e ci separano, tutti sparsi attorno alla stanza, addossati alle pareti, sconosciuti fra sconosciuti, poi chiudono le porte.

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Mi torna alla mente Marco de Marinis che ripropone l’ipotesi di un ripensamento della drammaturgia scenica come risultante dell’interazione fra tre diverse scritture: la drammatica, la scenica e la performativa. Lo fa in un saggio del volume “La regia in Italia, oggi” a cura di Claudio Longhi.

È stata una lettura causale, ma assolutamente illuminante per entrare con altri occhi nel “fenomeno” Ricci/Forte.

Soprattutto l’ipotesi di una scrittura performativa come “operatore o dispositivo di destrutturazione” degli altri due livelli. Cito quasi testualmente e invito a leggerlo per intero se si assiste a La ramificazione del pidocchio.

La questione registica, il suo ruolo nella produzione teatrale, è al centro di gran parte della riflessione teorico-critica sul teatro del 900. Dove inizi e dove debba terminare il ruolo di un singolo o di un team creativo rispetto al testo, al luogo, agli interpreti, ai suoni, agli apparati scenici è un rompicapo che, per lo spettatore, può sembrare quasi inutile, certamente cervellotico.

Perché ?

Eppure se ci si avvicina ad un certo tipo di teatro, quello che trasforma il pubblico in un osservatore scomodo, in piedi, ad un angolo, immobile o partecipe che sia, non si può non ragionare sul questo ruolo. È allora necessario domandarsi: perché mi tolgono la poltrona, il sipario, il palco, lo spazio rassicurante della divisione e mi piazzano qui? Perché sto dentro l’evento e non posso solo guardarlo? Perché non ho una singola visione, ma una pluralità e posso scegliere io, proprio io, dove e chi guardare? Perché io, che pago, che scelgo di partecipare devo diventare anche oggetto di chi agisce, di chi ha ideato? Domande su domande che accendono la mente, e intanto il tempo scorre, le azioni proseguono e ognuno di noi è lì dentro. Claustrofobicamente vicino all’azione. Senza via d’uscita.

Il titolo prende spunto da un frammento del Petrolio pasoliniano.

Ma l’universo contenutistico di questo intellettuale non si limita a questo: lo sport, la sessualità, la denuncia quasi asettica delle violenze che lo stesso potere politico mette in atto su un popolo la cui purezza è confermata, quasi, dalla condizione di non conoscenza.

Infine la corruzione del benessere che esplode, si riversa con violenza – la stessa violenza dell’espressione che gli interpreti concentrano in ogni gesto – su tutti, senza eccezioni. Attraverso il linguaggio, la violenza fisica, le bombe.

È una metafora? È una performance? È uno spettacolo? La teorizzazione si affatica a stare dietro al libero fluire. Le parole, gli atti, persino la musica, che passa dall’Aria del freddo di Purcell a Mina, sono flusso temporale sugli increduli ed emozionati astanti, alcuni vittime fortunate dell’attenzione dei cinque eccezionali interpreti.

La parola “interprete” è poi di per sé limitante.

Le tre donne e i due uomini, cui l’abito sembra voler togliere ogni connotazione sessuale, sono essi stessi espressione. Ogni virgola emotiva, ogni difetto è parola, è atto, si manifesta e ti colpisce.

Ti guardano, ti toccano, ti sfidano, ti commuovono, ti umiliano, ti sconvolgono e poi ti accompagnano verso l’uscita lasciandoti una biglia di vetro o un baciamano, perché ti resti qualcosa di tangibile. Ognuno dei presenti è turbato, in qualche modo, rigido, titubante.

Tutti “c’avemo voja de tornà a casa”.

Il grido, anch’esso pasoliniano, che chiude il circolo perfetto della performance, è lo stesso di ogni singolo osservatore, cui manca il coraggio per esprimerlo. Ognuno di noi vorrebbe tornare a casa da quel luogo chiuso, asettico e tortuoso da cui possiamo solo guardare fuori, senza mai esserne partecipi.

Se sia poi critica alla società dei consumi, alla incapacità di vivere, o semplice – si fa per dire – provocazione artistica, ogni individuo dovrà giudicarlo con la propria coscienza. Anche a questo serve il teatro: a ritrovare la coscienza.

Di RICCI/FORTE, La ramificazione del pidocchio (hommage à Pier Paolo Pasolini) è nel programma di “Short Theatre” nella meeting room de La pelanda.

drammaturgia | ricci/forte

con | Giuseppe Sartori, Simon Waldvogel, Anna Gualdo, Liliana Laera, Ramona Genna

movimenti | Marta Bevilacqua

assistenti regia | Liliana Laera, Ramona Genna

direzione tecnica | Danilo Quattrociocchi

regia | Stefano Ricci

produzione | ricci/forte

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