“It took a 13 hour flight from Buenos Aires to Frankfurt. Another flight to Venice and then a two hour drive. Deborah and David Niven and Jean Seberg are not here, but the golden walls and the looming port, sing of nostalgia. And now to reread the same book I adored when I was sixteen.” 

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Con un post di Instagram Patti Smith ha salutato i suoi fan dopo il lunghissimo viaggio che l’ha portata da Buenos Aires (dove si è esibita il 21 novembre) a Trieste, prima tappa italiana del suo tour “Words and Music”.

La stessa città italiana è protagonista anche dei post successivi, e Patti Smith offre la prospettiva inedita di un’artista che, ancor prima di diventare “sacerdotessa del rock”, scriveva e recitava poesie, leggeva autori come Yukio Mishima, André Gide e Jean Genet, disegnava assieme a Robert Mapplethorpe.

Ai suoi occhi Trieste  è la patria di James Joyce, una città nostalgica che rivela storie di altri tempi con il suo porto vecchio, silenzioso e appartato come un animale dormiente, e con la sua luce grigia che fa bramare il sole. La letteratura e la poesia le hanno fatto fantasticare di poter un giorno camminare per le strade di questa città che le ricorda il titolo di un romanzo, Bonjour tristesse di François Sagan.

Come ha affermato durante la serata di lunedì 25 novembre, mai avrebbe immaginato che molti anni dopo il suo sogno si sarebbe realizzato in occasione di un suo concerto e in un teatro come il Rossetti.

Per rendere omaggio alla città dalle “mura dorate” e dal “porto incombente” Patti Smith ha introdotto alcune delle sue canzoni con la lettura delle poesie di due autori che ben conoscevano Trieste e i suoi dintorni, ovvero il poeta tedesco Rainer Maria Rilke e il poeta sloveno Srečko Kosovel.

La scelta dei primi brani da suonare ha cavalcato l’onda delle poche ma efficaci parole spese dalla cantante a favore della lotta contro il cambiamento climatico.

“This must be a global movement. (…) Follow the young, rise up!”

ha concluso, per poi intonare la meravigliosa “Ghost dance”, accompagnata da Tony Shanahan alla chitarra e al pianoforte.

La canzone è un invito a riunirsi e si ispira ad un movimento di fine Ottocento diffusosi tra gli Indiani delle Pianure americane, che ballavano per far risorgere i propri antenati e fermare l’avanzata dell’invasore bianco.

A seguire “Grateful” dell’album Gung Ho (2000), un omaggio all’ospitalità ricevuta a Trieste, e “My blakean year”, dell’album Trampin’(2004), suonata in vista dell’avvicinarsi del compleanno del pittore e poeta William Blake, verso il quale Patti Smith nutre una profonda devozione.

Il 28 novembre sarà anche il giorno in cui all’artista americana verrà conferita una laurea honoris causa in “Lingue e letterature europee e americane” dall’università di Padova, dal momento che, come si legge nelle motivazioni del Dipartimento di Studi linguistici e letterari:

“Per Patti la parola è dialogo fra arte e società, sospesa fra il sussurro religioso e l’urlo disperato. Dai suoi esordi come autrice di poesie recitate e di happening punk rock fino alle successive sperimentazioni nel rock alternativo, Patti Smith ha esplorato le virtù espressive della parola in ogni sua forma: recitata, cantata, urlata, sputata, sognata, sussurrata. […] Nei suoi testi riscontriamo inoltre l’ispirazione che le proviene anche dalle grandi letterature europee e americane fra modernità e contemporaneità. Patti disse che per lei Rimbaud era come un fidanzato”.

Non è la prima volta che l’Italia riconosce il valore dell’opera di Patti Smith da un punto di vista accademico e, in particolare, letterario: già nel 2017 l’università di Parma le ha conferito la laurea magistrale in Lettere Classiche e Moderne.

“In America I didn’t finish school. Anything can happen!”

così ha commentato la notizia Patti Smith lunedì sera, visibilmente soddisfatta del traguardo inatteso, per poi passare a suonare “Dancing barefoot”, dell’album Wave (1979), una canzone dedicata alle donne e “a tutti gli altri” e “Beneath the southern cross” dell’album Gone Again (1996), dedicata a coloro che hanno perso la vita lavorando nelle risiere.

In più di un’ occasione, lunedì sera l’entusiasmo del pubblico è andato oltre ai semplici applausi: a più riprese un nostalgico ha sfruttato qualche pausa per urlare “Cbgb”, riferendosi al club rock di Manhattan teatro delle prime esibizioni di Patti Smith, nonché brodo primordiale dal quale sono emersi grandi gruppi punk e new wave come i Ramones, i Television, i Talking Heads e Blondie. “They closed it fourteen years ago” ha risposto Tony Shanahan, “but you can open one on your own. Seriously, it’s just a state of mind”, ha aggiunto la cantautrice.

Dev’essere proprio così, infatti la musica di Patti Smith immerge l’ascoltatore all’interno di una sensibilità particolare, delicata e del tutto personale, che ben potrebbe definirsi come uno “stato mentale”. I testi delle sue canzoni sono di grande profondità poetica e illuminano l’esperienza quotidiana con una luce pura e mistica al tempo stesso.

Anche l’album di debutto, Horses (1975), pur situandosi nel contesto del movimento punk emergente nella New York dei primi anni Settanta, se ne discosta per la qualità dei testi, che può paragonarsi a quella di Bob Dylan, senza per questo abbandonare l’energia rabbiosa della ribellione ai modelli prestabiliti.

Dopo una bellissima cover di “Perfect Day” di Lou Reed, a chiudere il concerto è un classico, “People have the power” dell’album Dream of Life (1988). A suonare la chitarra accanto a Patti Smith c’è anche un coraggioso ragazzo dal pubblico, Warren Monteleone, che a fine concerto è sepolto dai curiosi ed è in fibrillazione: “Pensa che sabato scorso ho suonato con Tolo Marton, il leggendario chitarrista de Le Orme” mi dice, ma qualcosa mi fa pensare che sarà questa serata a passare alla storia.

Foto di copertina di Simone Di Luca.

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