Nell’ambito di una rassegna veneta sul teatro sperimentale, è andato in scena al Fucina Culturale Machiavelli di Verona Giulietta e Romeo, lettere dal mondo liquido – l’esperimento onirico di Teatro di Lemming.

Risultato immagini per teatro del lemming romeo e giulietta
L’eterna dubbio del teatro sperimentale: ma è finito?

La musica si ferma e il palco si svuota. Un paio di fari caldi rimangono accessi. Passano un secondo, poi dieci. Le teste si voltano verso altre teste con la domanda scritta in faccia. La solita vagamente imbarazzante domanda che spesso accompagna questo genere di rappresentazioni teatrali: ma sarà finito? Qualcuno timidamente si getta in un applauso, un altro paio si aggiungono. Ma prima che un vero scroscio possa partire, un uomo scende in platea e si rivolge al pubblico. Ci avvisa che l’applauso non è necessario: come compagnia teatrale credono che se qualcuno è avvenuto, se si è creata una connessione tra attori e pubblico, questo è avvenuto sul palco durante lo spettacolo.

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Perché andare a teatro il sabato sera?

Può sembrare una domanda fuori tema. Una inutile provocazione. Cosa c’entra adesso, nel mezzo di questa recensione, interrogarsi su questo? E invece c’entra. Perché se dobbiamo parlare di connessione tra attori e pubblico, tra l’arte e i loro destinatari, allora dobbiamo anche onestamente riflettere cosa quest’arte mi offre che non posso trovare altrove. Perché in un mondo saturo di storie dove ogni mio possibile bisogno di senso – dal puro intrattenimento alla ricerca più intimista – è appagato immediatamente da decine di forme diverse di media narrative; perché in un mondo del genere dovrei spendere il sabato sera appresso al teatro sperimentale, la forma di espressione più lontana dall’immediato che possa esistere?

Una provocazione, certo. Ma forse non inutile in tempi in cui i teatri si spopolano ogni sabato sera un po’ di più.

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L’inside joke che non fa ridere nessuno

L’inside joke è un battuta il cui senso o la comicità possono essere compresi solo da chi ne conosce il contesto o l’origine. È questa la sensazione che spesso suscita questo genere di spettacolo: c’è una battuta che non sto cogliendo perché mi manca qualcosa. Sul palco succede moltissimo, quasi troppo: non c’è mai un vero momento di noia. I quattro interpreti si muovono quasi incessantemente tra un quadretto e l’altro senza neanche riprendere fiato. La recitazione c’è. Le luci sono tutte piazzate nel punto giusto. La musica avvolge tutto nel modo in cui dovrebbe. L’intero spettacolo è un ininterrotto rincorrersi di spettacolare teatralità: le trovate sceniche sono tutte d’impatto e ben costruite. Eppure qualcosa mi manca: un filo, un perché.  Mi manca capire la battuta. A fine spettacolo una maschera mi allunga un foglio. Sopra è riportata la scaletta delle scene: il contesto che cercavo. Peccato non fosse integrato al resto dello spettacolo.

La connessione: il bisogno dello spettatore

Qualcuno potrebbe argomentare che capire la battuta non è il senso del teatro né tanto meno di quello sperimentale. Che c’è un’emozione da cogliere. Che lo spettacolo significa ciò che lo spettacolo ti lascia. Però ogni esperienza, anche se profondamente emotiva, è sempre e comunque cognitiva perché è in quel modo che l’uomo filtra il mondo. E lo spettatore ha un bisogno, anche minimo, anche in parte co-costruito con l’artista, di capire. Ed è un capire che non vuole essere certo imboccato, che può e deve continuare a vivere nello spazio onirico e non definito creato dall’artista, ma che deve esistere per creare quella connessione tra attore e pubblico.

Perché non sia solo una battuta che non posso cogliere. Perché lo spettatore non si ritrovi disperso in un mare di belle immagini. Perché non stia a domandarsi perché venire a teatro il sabato sera.  

La connessione: il bisogno dell’attore

Dall’altra parte però quante volte posso rifare Romeo e Giulietta così come Shakespeare l’ha scritto? E soprattutto se voglio parlare dell’oggi, posso farlo usando solo la Verona del 1300? Allora ci devono essere i cellulari e il mondo liquido e i rifugiati iracheni. E dev’essere non lineare. Ho il bisogno di riportarlo in un modo che restituisca la natura frammentaria del nostro mondo. E come attore ho anche il bisogno di esprimermi in un nuovo linguaggio, perché quelli vecchi non bastano più, perché tutto il resto è stato esaurito. Ha già scritto tutto Shakespeare.

È la connessione si infrange su questo muro. Il lavoro dell’artista sta nel far diventare questi bisogni di espressione anche dello spettatore.

Ciò che resta

Niente è stato detto dello spettacolo di per sé. E credo che nello spirito dimostrato dalla compagnia di Rovigo possa essere accettato. Nello spazio di connessione tra attore e spettatore questo è ciò che è rimasto. Ogni interpretazione o resoconto che avrebbe potuto essere fatto qui sarebbe solo stata un’accozzaglia senza valore di impressioni personali. Andate a vedere lo spettacolo per voi e create la vostra connessione.   

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