È tornata a Verona alla Fucina Culturale Machiavelli Dopodiché stasera mi butto, la commedia originale di Generazione Disagio, compagnia che sarà di nuovo alla Fucina dal 19 al 21 gennaio con Karmafulminiem, il seguito spirituale di questo primo spettacolo.

E come era successo per le già acclamate rappresentazioni, la sala era piena e completamente presa da ciò che stava avvenendo sul palco. Infatti, a cominciare dalle sue paradossali premesse, la parola d’ordine del testo di Riccardo Pipp, Alessandro Bruni Ocana, Luca Mammoli, Enrico Pittaluga e Graziano Sirressi sembra essere quello di intrattenere, divertire a ogni costo. E con la sua semplice messa in scena, il testo è in grado di farlo grazie alla sua commistione di umorismo caustico e scorretto, goliardia e una buona dose di cinismo.

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Sul palco quattro personaggi, tutti in qualche modo portavoce della generazione disagio: quella della crisi, del precariato e dei laureandi a vita, la generazione dei social media e la perdita delle capacità relazionali, continuamente a disagio con l’aridità che la circonda ma che, allo stesso tempo, sembra sempre sguazzarci dentro.

Ma invece di discutere il senso della vita – perché come annunciato da uno dei personagginon c’è un senso, non rompiamoci i coglioni’ – i nostri personaggi salgono sul palco per presentare al pubblico la loro filosofia per uscire dal disagio fondata su tre magiche Ddistrazione, disinteresse, disaffezione – e per fare dimostrazione del gioco da tavolo creato sulla base di questa filosofia: un gioco dell’oca macabro in cui sulla casella della vittoria la ricompensa è il suicidio.

La chiave del perché Dopodiché stasera mi butto funziona così bene sta proprio nell’improbabile accostamento di tono e argomento.

La gravità e pesantezza della prospettiva del suicidio sembra quasi venir annullata dal contesto ridicolo in cui viene inquadrata, permettendo allo spettacolo di esistere su due piani diversi allo stesso tempo: quello di un umorismo dissacrante, che vuol farti credere che non esiste nulla di serio nella narrazione, e quello di una genuina e sincera rabbia, che il luogo migliore dove nasce la tristezza e quello ancora più adatto alla comicità.

In rari sporadici momenti, infatti, nel corso dello spettacolo e molto più chiaramente alla fine, riusciamo a intravedere tra una raffica di battute e una pantomima un senso più profondo, che va oltre la battuta in sé, e maschera un sentimento di malessere che è vero, sentito, manifestato.

È ciò per cui l’umorismo politicamente scorretto è nato, il suo compito principe: farti ridere e poi farti sentire a disagio per questo.

In questa prospettiva niente di ciò che avviene sul palco risulta mai fuori luogo, che si passi dalla narrazione di un tentato suicidio a quella di una masturbazione. E il tutto è legato insieme da un constante richiamo al pubblico, che viene invitato a partecipare, commentare e dialogare con gli attori come parte integrante dello spettacolo.

In un senso più ampio facciamo tutti parte di questo grande disagio collettivo, comunitario, di cui ridiamo insieme in un modo che è terribilmente terapeutico e sul quale scegliamo poi, in misura coerente con il nostro disagio personale e reale, di ascoltare il sottotesto melanconico e disilluso. Ridiamo per non piangere e ridiamo per non ucciderci.

Questo spettacolo è una bellissima battuta deprimente, frutto di una generazione stanca di litigare con le domande del suo tempo, e che forse per una sera vuole solo ridere di sé stessa.

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