Fino al 30 Aprile è in scena al Politeama Rossetti di Trieste il commovente e ironico spettacolo “La vita davanti a sé” raccontato attraverso la coinvolgente interpretazione di Silvio Orlando.

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È in scena in questi giorni al Teatro Rossetti di Trieste “La vita davanti a sé” tratto dall’omonimo romanzo di Romain Gary e con Silvio Orlando nei panni di Momò, il bambino ora adulto, protagonista della toccante storia ambientata nella multietnica Parigi del secondo dopoguerra.

LA TRAMA IN BREVE

La vita davanti a sé è la storia di Mohamed detto Momò, bambino arabo di dieci anni che vive nel quartiere multietnico di Belleville, nella Parigi del secondo dopoguerra. Una volta cresciuto Mohamed è un uomo dal passato indiscutibilmente tormentato, ma che tuttavia ci racconta la sua infanzia con nostalgia e tenerezza più che con dispiacere.

Figlio di una giovane prostituta che poi sparirà dalla sua vita, Momò vive insieme ad altri bambini, tutti “incidenti sul lavoro” come lui, nella pensione di Madame Rose, ex prostituta ebrea reduce da Auschwitz. Proprio il legame tra Momò e Madame Rose è al centro della narrazione. Il loro è un rapporto singolare, ma che permetterà ad entrambi di fare un percorso di crescita e riscoperta di sé stessi e, soprattutto, di capire cosa vuol dire amare ed essere amati.

IL ROMANZO

Il testo da cui è tratta la pièce è il romanzo “La vie devant soi” di Emile Ajar, pseudonimo dello scrittore lituano Romain Gary, pubblicato in Francia nel 1975. Un romanzo commovente e ancora attualissimo, che racconta storie di vite singolari e a tratti drammatiche, ma anche di un’improbabile storia d’amore.

Il romanzo garantì all’autore di vincere il premio Goncourt (importante premio letterario francese istituito a Parigi nel 1896). La vittoria però non fu priva di polemiche in quanto in base al regolamento, gli scrittori possono vincere il Goncourt solo una volta nella vita. Al contrario, Romain Gary lo aveva già vinto nel 1956 con il romanzo “Le radici del cielo”. Ecco spiegato l’utilizzo dello pseudonimo per assicurarsi nuovamente la partecipazione al premio letterario. Il caso volle che la verità venisse alla luce solo dopo la morte di Romain Gary, nel 1980.

Del romanzo esistono anche due adattamenti cinematografici: un film del 1977 diretto da Moshé Mizrahi, che ha vinto l’oscar come miglior film straniero, e un remake italiano del 2020 con Sophia Loren.

L’INTERPRETAZIONE DI SILVIO ORLANDO

Silvio Olrando (Napoli, 1957) è un attore del cinema e del teatro italiano tra i più seguiti e apprezzati.

Ed è infatti con grande maestria e profondo trasporto che va in scena in “La vita davanti a sé”, dove è impegnato nell’importante ruolo di protagonista (ma attorniato da un indispensabile supporto musicale). La sua voce ci trasporta all’interno delle pagine del libro con la delicatezza che la storia esige, ma anche con la leggerezza e l’ironia del bambino di 10 anni che interpreta, il quale nonostante tutto vive il dramma della vita con speranza.

Grazie alla sua grande esperienza Orlando veste con naturalezza ed empatia i panni di Momò, restituendone un’interpretazione credibile e coinvolgente. L’attore riesce a replicare perfettamente la curiosità del protagonista, che esplora il mondo nella disperata speranza di trovare amore, significato, senso di appartenenza, o anche solo attimi di felicità.

Le tematiche affrontate dall’opera sono spesso drammatiche e profonde, ma, ciò nonostante, l’interpretazione di Orlando non si cala mai nella ricerca del dramma puro. Portando avanti un monologo ricco di sarcasmo ed ironia, l’attore riesce a regalare allo spettatore momenti di sorrisi sinceri. Ci si commuove e si ride insieme, un po’ come avviene nella vita di tutti i giorni.

Ed è proprio con la sua voce che attira l’attenzione degli spettatori ancor prima che si apra il sipario:

State per assistere ad una grande storia d’amore”.

Ed è con queste premesse che ci trascina nel cuore e nella testa del piccolo Momò.

LA COLONNA SONORA

Silvio Orlando però non è completamente da solo sul palco. A fornirgli un indispensabile supporto c’è infatti la colonna sonora di Simone Campa assieme all’Ensemble dell’Orchestra Terra Madre composta da 4 componenti. L’accompagnamento musicale diventa commento quando accompagna gli stati d’animo del protagonista, e si fa incredibile creatore d’atmosfera quando utilizza un sound multietnico per descrivere al meglio l’ambientazione della storia. Si alternano infatti canzoni del repertorio francese più classico, a ritmi africani, oltre al fatto che vengono ricreati con gli strumenti musicali alcuni rumori e sottofondi della storia.

Una piacevole sorpresa è stata la possibilità di assistere ad un breve concerto a fine spettacolo, nel quale Orlando si è anche cimentato nel suonare il flauto, insieme all’ensemble.

L’EDUCAZIONE SENTIMENTALE

Pensavo fosse un grande amore invece era solo un uovo

Momò è un bambino alla continua ricerca di una dimostrazione d’affetto, o quanto meno di interesse. Ha nostalgia della mamma, ed esplora il mondo che lo circonda alla ricerca di qualcosa che neanche lui sa bene cos’è. Emblematica è la sequenza in cui decide di rubare un uovo, non sperando di farla franca, ma anzi quasi desideroso di ricevere uno schiaffo, una punizione, che in ogni caso avrebbe rappresentato un gesto educativo al quale non era abituato. Al contrario, come ci viene raccontato sia nel romanzo che nel monologo di Silvio Olrando, la commessa gli fa una carezza e gli regala anche un altro uovo. Per la prima volta Momò riceve un gesto di affetto disinteressato, e inizia forse a comprendere cosa vuol dire volere bene.

Momò e Madame Rosa sono un’accoppiata singolare, un duo particolare che agli occhi dello spettatore può anche risultare buffo, ma sono l’uno la famiglia dell’altro. Ed è per questo motivo che a modo loro cercano di darsi tutto l’amore di cui sono capaci. Momò è un bambino mussulmano che cerca conferme sul mondo, ma soprattutto su sé stesso. Madame Rose è una donna traumatizzata che al riaffiorare dei ricordi della guerra e del nazismo, corre a rifugiarsi nel suo “cantuccio ebreo”. Entrambi sono a pezzi ma insieme riescono a completarsi, grazie all’affetto che nutrono l’una per l’altro.

È per questo che quando arriva il padre di Momò, uscito dopo 11 anni dal manicomio criminale per l’omicidio della madre del ragazzo, e che ora vuole riavere indietro suo figlio, Madame Rosa si rifiuta di consegnare il bambino con un particolare stratagemma. Ed è così che a Momò rimane soltanto la donna che lo ha cresciuto, e a Madame Rose nel momento in cui la morte si fa sempre più vicina, rimane solo quel ragazzino mussulmano a cui ha cui ha tenuto tanto. Si arriva così alla toccante conclusione delle vicende dei due protagonisti, con Momò che resta accanto a Madame Rose, nel suo cantuccio ebreo per farla sentire al sicuro, finché quest’ultima non esala l’ultimo respiro (e le resterà accanto anche dopo).

I TEMI ATTUALI

Lo spettacolo è un’accurata fotografia della difficile vita di chi, per un motivo o per l’altro, vive da emarginato. Il quartiere multietnico di Belleville in cui è ambientata la storia, è un luogo in cui convergono persone dei ceti sociali meno abbienti, escluse dalla società perché considerate diverse in un modo dispregiativo che non dovrebbe neanche esistere. Quello caratterizzato dall’emarginazione è un mondo crudele e indifferente, ma la storia che si svolge davanti ai nostri occhi è anche capace di farci ridere e sognare, oltre che emozionare.

La cosa più sorprendente di quest’opera è che risulta più che mai attuale, affrontando con determinazione temi che sono al centro del dibattito sociale anche nel nostro presente. Proprio per questo assistere a questo spettacolo non può che suscitarci riflessioni complesse e profonde. Attraverso gli occhi di Momò e la voce di Silvio Olrando assistiamo ad una vicenda che ci parla dal passato al presente, perché l’animo umano con le sue brutture ma anche con le sue bellezze, è un argomento che non ha età.

La potenza di questa rappresentazione sta nel fatto che le vicende drammatiche e viscerali che investono i protagonisti, si intrecciano con problemi sociali quali l’emigrazione, il razzismo, la diversità, che l’attore riesce a far trasparire con la chiarezza e la semplicità che solo lo sguardo di un bambino di 10 anni può donare. È proprio il punto di vista di Momò che ci permette di renderci conto che, tutto sommato, queste categorie in cui insistiamo a dividerci non sono poi così importanti. La nostra tendenza ad etichettare il mondo pensando così di poterlo comprendere meglio, non fa altro che farci perdere di vista quanta meraviglia c’è nelle sfumature, nei difetti, nelle diversità di ciascuno.

Perché alla fine di tutto siamo semplicemente esseri umani, e siamo tutti alla ricerca di una cosa: l’amore. Esistono forme infinite di amore, ma il tutto si riduce al sentirsi apprezzati, capiti, accettati, in sintesi: vogliamo essere visti dagli altri.

Le ultime parole del romanzo di Garay, che coincidono con le ultime parole che Orlando regala allo spettatore, sono in tal senso emblematiche e formano una sintesi perfetta del messaggio dello spettacolo: “BISOGNA VOLER BENE”.

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