Oggi si parla di poesia e più nello specifico del Trieste Slam Fest. Nato da poco a Trieste grazie a Theo Verdiani, all’associazione di promozione sociale Parole Controvento e a Carlo Selan assieme al collettivo Babau, di cui è membro, il Trieste Slam Fest è un festival incentrato sulla poesia performativa e la slam poetry. Ogni ultimo venerdì del mese, poeti, artisti e musicisti possono dare vita a esibizioni poetiche con voce, corpo e parole presso la sede di Parole Controvento in via Tiziano Vecellio 1/b. Vi aspettiamo quindi numerosi il 27 ottobre per il prossimo appuntamento del Trieste Slam Fest.

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Parliamo del Trieste Slam Fest insieme a Carlo Selan, poeta e scrittore *

Come descriveresti il Trieste Slam Fest?

Credo sia importante ribadire che abbiamo deciso di creare il Trieste Slam Fest in più persone e più associazioni, come Babau, Parole Controvento e lo scrittore Theo Verdiani. Approfondire un linguaggio artistico, utilizzarlo, significa incontrare tutti i limiti di quel linguaggio e cercare di superarli in altri linguaggi. Per esempio, il disegno può essere superato nella fotografia e la fotografia ha dei limiti che vengono superati nel disegno. La stessa cosa succede per la poesia. È bello pensarla come una possibilità di espressione e comunicazione, però in costante interazione con altro.

La slam poetry e la poesia performativa sono un momento che succede quando una persona è lì con la sua voce, il suo corpo e dice qualcosa. In quel momento capitano tante cose, capitano parole, capita una voce, capita un corpo, l’interazione con il pubblico, la gestualità. Tutto questo amplia alcune possibilità e alcuni limiti rispetto all’intendere la poesia solo come linguaggio scritto. E viceversa, ovviamente. L’idea è di lavorare sull’ibridazione, giocare nei confini.

Magari una poesia non sarebbe altrettanto completa senza la performance che l’accompagna.

Sì, in questo la poesia performativa ha delle grandi possibilità, sia che trovi un suo primo spazio in un contesto slam, sia che si strutturi in maniera più articolata e complessa. Riguardo a un poetry slam, si tratta di un evento che può essere organizzato in maniera molto facile, ci sono poche regole e concede uno spazio di libertà entro quei minimi limiti imposti da un contesto comunicativo. Bisogna comunicare e bisogna rispettare l’altro, però c’è estrema libertà. Ci sono persone che magari hanno scritto solo il testo che leggeranno lì e che poi non scriveranno mai più niente, magari si presenta un ragazzino che ha appena cominciato a scrivere e non conosce persone o spazi con cui confrontarsi per crescere, o magari si presenta un poeta esperto. È uno spazio in cui ci si può incontrare e non ci sono biografie né personali né artistiche; tutto si gioca sulle interazioni che si creano lì sul posto. Il punto fondamentale è che non si parla solo di poesia, ma si parla anche di corpi, di voce.

C’è un traduttore di nome Ottavio Fatica  che in un suo libro dice “quando restituisce un corpo, ecco: è poesia”. Secondo me, che si parli di poesia scritta, performata o letta ad alta voce, il punto fondamentale è che devi restituire un corpo a chi hai davanti, a chi ti legge, ascolta o interagisce con te.

Che legame c’è tra il poetry slam e Trieste?

Il poetry slam è solo uno degli aspetti del fare poesia performativa. In Italia e a Trieste si fa da tempo, dall’inizio del 2000 con gli Ammutinati, un collettivo di poeti (tra gli altri, Luigi Nacci, Christian Sinicco, Matteo Danieli, Furio Pillan) che insieme ad altri in giro per l’Italia avevano cominciato a lavorare su questa oralità della poesia, ma in chiave contemporanea. Poi la cosa è proseguita attraverso il lavoro di varie persone, di vari collettivi come ZufZone dove tra gli altri dentro c’eravamo io, Wissal Houbabi, Beatrice Achille, Theo Verdiani, Ale Smile, Michele Bresciani, Claudia Calderone, Alberto Rigo (nominare tutte le persone che hanno reso possibile quell’esperienza sarebbe molto lungo). Dopodiché ognuno ha preso i propri percorsi e le proprie strade.

Per quanto mi riguarda, ora come ora aiutare a organizzare dei poetry slam significa creare degli spazi di comunità che sono diversi dal trovarsi semplicemente al bar, ma sono un momento in cui creare qualcosa. Questo è qualcosa che secondo me a Trieste manca. Trieste è una città che ha tanto a che fare con la contemporaneità in senso problematico, con ciò che accade in Italia e nel mondo, ma ha poche persone che abbiano voglia di interagire con questi temi. Il Trieste Slam Fest è uno spazio in cui tanti percorsi si possono incontrare e quindi si può costruire momenti di comunità partendo dal basso. Io tra le altre cose insegno a scuola e il piano in cui un linguaggio artistico può diventare strumento per dei ragazzi di interazione con la realtà, di critica e dissenso e di espressione di sé mi interessa molto. Ritengo sia giusto lavorare per creare spazi in cui questo possa avvenire.

Forse da parte delle persone c’è un po’ di timidezza nell’approcciarsi alla poesia perché non si sa come fare. Questi eventi possono essere un modo diverso per fruire la poesia?

Sì, assolutamente. Credo che una divulgazione della poesia come linguaggio dovrebbe porsi meno domande metafisiche e ontologiche (Che cos’è e che cosa non è questa benedetta poesia) creando categorie e distinzioni e concentrarsi invece sulle continue ibridazioni e possibilità che un linguaggio può dare a una persona, una voce o un corpo di dirsi. Non bisogna mai dimenticare che il problema non è della lingua, ma della persona che si espone nella lingua. Fare poesia e lavorare con il lessico intersecato con il ritmo, con il parlato che è memoria storica collettiva e personale di lingue, dialetti, errori di pronuncia che sono un corpo che dice. A me interessa la poesia se sa essere linguaggio che interagisce con la realtà per quello che è, mantenendo vivi i conflitti. Sia chiaro, la slam poetry non è decisamente l’unico modo di farlo e non è neanche un modo che necessariamente mi riguarda in prima persona però è uno spazio in cui tante maniere possono entrare, è un contenitore.

Parlami un po’ della tua esperienza con il collettivo Babau.

Babau è un collettivo nel vero senso del termine, un gruppo di persone con interessi artistici, possibilità, linguaggi di espressione molto diversi. Ci accomuna la voglia di giocare con questi, di ibridarli e di creare continue metamorfosi, oltre a riflessioni comuni che riguardano gli spazi e le comunità che ci troviamo ad abitare. Infatti, oltre ad aver organizzato il festival di poesia, facciamo anche altro. Per esempio, l’altro giorno eravamo in Casa di cultura in occasione di Manifestarte. Avevamo preparato un’installazione incentrata sul piano figurativo. Questa installazione, che si chiamava “Oltre mondo”, è stata pensata in particolare da Silvia Mengoni, anche lei parte di Babau. Siamo partiti da un’intelaiatura solida in legno e acciaio con all’interno un pannello trasparente su cui si poteva disegnare interagendo con lo spazio intorno. Ci trovavamo su una terrazza quindi si poteva interagire con i palazzi intorno, la periferia di Ponziana, e simultaneamente con la persona dall’altra parte del pannello. Alla fine ne è scaturito questo pannello con varie scritte e disegni che abbiamo conservato. La cosa bella è che si è creata un’interazione non solo sincronica ma anche diacronica, perché una persona poteva interagire con quello che era stato disegnato da altri ore prima. Quindi c’era un’interazione sia nello spazio che nel tempo.

Prima ancora, sia questo inverno che questa primavera, abbiamo fatto dei laboratori anche a Parole Controvento. Per esempio, c’era un laboratorio a partecipazione gratuita in cui ragionavamo a partire dagli spazi che vorremmo abitare per capire con che tipo di persone vorremmo abitarli, che tipo di comunità vorremmo costruire. E per fare questo avevamo costruito un laboratorio artistico con l’idea che, attraverso mezzi e linguaggi artistici, le persone potessero avere degli strumenti in più per riflettere su questi temi. Abbiamo ragionato anche sui diversi tipi di comunità costruite qui a Trieste, come ad esempio da Marco Cavallo e da quella comunità artistica che si era formata all’interno del laboratorio nell’ex OPP di San Giovanni, o anche attraverso i metodi di lavoro di Giuliano Scabia, che era un drammaturgo e scrittore che aveva collaborato con Basaglia.

Siamo stati impegnati in molti laboratori diversi per ragionare sulla realtà e interagire con essa in maniera conflittuale e critica attraverso il linguaggio artistico. Infatti, il linguaggio artistico non è solo qualcosa di inerme o estetico, ma può dire qualcosa sulla realtà.

Tu fai anche parte della redazione di Charta Sporca.

Sì, è una bellissima realtà che è sempre stata molto onesta e integra, nelle sue forze come nelle sue debolezze, e non si è mai mostrata diversa da ciò che è. Charta Sporca fa un discorso culturale inattuale e attuale assieme, che parte dal basso e cerca di dire le cose con onestà. Ultimamente, per motivi di lavoro e quant’altro, non sto riuscendo a partecipare molto, ma stanno presentando dei progetti bellissimi come “Comizi d’amore 2.0”.

Secondo te perché oggi si legge poca poesia e perché invece è importante leggerla?

Non so se la poesia sia qualcosa di importante e tanto meno se sia importante leggerla. Non necessariamente la poesia è intesa solo come qualcosa da leggere. La poesia può essere posta in maniera visiva sui muri, in un’installazione, in un contesto digitale, come voce. Si può fare poesia lavorando su tracce registrate piuttosto che su libri (nel laboratorio su Marco Cavallo, ad esempio, lo abbiamo fatto). Viviamo in un mondo fatto di narrazioni visive che interagiscono in modo più efficace rispetto alla parola scritta, che funziona ma fino a un certo punto. Il punto è lavorare sull’ibridazione, in parallelo alle potenzialità di ogni linguaggio.

Sul perché la gente legge poca poesia sicuramente c’è un problema che è della scuola. La poesia spesso viene raccontata da professori che magari non leggono poesia o che non si sono mai chiesti perché funzioni in un certo modo. Sta a gli scrittori, ai divulgatori, agli insegnanti e agli organizzatori di eventi porsi questi interrogativi e chiedersi se lo fanno solo per loro stessi o se sono interessati a interagire con la realtà, costruire una comunità, dialogare con le persone. È un discorso complesso, ma secondo me ci sono diversi livelli di responsabilità, in cui compaiono anche l’editoria e gli stessi autori, anche quelli bravi, che a volte ci tengono a restare sulla loro torre d’avorio. Bisogna lavorare sull’ibridazione, dimostrare che la poesia è solo uno dei tanti modi in cui ci si può esprimere e bisogna trasmetterlo ai ragazzi in maniera accessibile e facile, rispettando il loro lessico, il loro ritmo, il loro modo di fare. Se a uno interessa farlo ovviamente.

Com’è stata la risposta dei partecipanti al Trieste Slam Fest?

Insieme a Parole Controvento e Theo Verdiani abbiamo messo insieme questo progetto. È partito un po’ dal basso, funziona con i finanziamenti che noi possiamo metterci dentro e facciamo tutto in prima persona, dalle locandine alla promozione. È un modo di fare cultura che ci piace, anche se ha i suoi limiti, ha una sua onestà e un suo senso. Si tratta un po’ di un esperimento, noi ci proviamo e vediamo come va e per ora abbiamo avuto una buona risposta. Nella prossima data ci sarà un ospite che lavora sul piano non tanto della poesia quanto della performance elettronica. Si chiama Jesus Valenti e ci regalerà una life performance di musica elettronica hambient lavorando sul campionamento.

* Carlo Selan nasce a Udine nel 1996. Suoi interventi e lavori di studio sono presenti su diverse riviste specializzate. Uno di essi, inizialmente pubblicato su Nazione Indiana, attualmente compare con il titolo “Appunti per una scrittura in nota” nel volume miscellaneo La radice dell’inchiostro (Argo 2021). Suoi testi si trovano nell’antologia Abitare la parola. Poeti italiani nati negli anni Novanta (Ladolfi 2019) e alcune sue traduzioni in Poetikon. Antologia di poesia slovena contemporanea tradotta da poeti sloveni. Ha pubblicato Nove (Edizioni volatili 2020) e Basilica (IoDeposito 2021). Fa parte della redazione di Charta Sporca. È stato uno dei fondatori del collettivo ZufZone. Attualmente lavora con il collettivo Babau facendo performance, laboratori, installazioni.

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