Uccidere ciò che non si può possedere. È questa la deriva distruttiva, il cupio dissolvi, il gesto ignavo di chi teme la forza rivoluzionaria dell’amore e, nell’impossibilità di comprenderlo, lo nega, a volte fino ad estirparlo. Una storia che si ripete mille volte o mille storie in una, la protostoria d’amore per eccellenza, per i cristiani, quello di Joshua o Gesù o Jesus.

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La storia di un amore che redime e che offende con la sua proposta di redenzione

Ed è anche la storia di Jesus Christ Superstar, raccontata dall’ imponente produzione artistica di Massimo Romeo Piparo, tornata in scena il 6 aprile, un musical capace di rompere la fissità della narrazione ripetitiva, facendosi paradigma di eventi attuali, codificandone il senso.

È ciò che è accaduto sul palco del Sistina in una versione rinnovata che, nel narrare una storia di amore e oppressione, non poteva non aprire violentemente il sipario sull’orrore della guerra portando in scena una preghiera di pace tra Russia e Ucraina, la vittima flagellata a cui nessuno riserva il consolante seppur terribile riscatto di una croce.

Può un teatro provare a riparare? Sì, altrimenti, di questi tempi, a cosa servirebbe narrare la storia di una Superstar ante litteram che rivendica quello che potrebbe sembrare un insensato “diritto” al sacrificio per la pace dei popoli?

Per i cristiani la croce è un segno di pace, ossimoro difficile da comprendere attraverso un’operazione logica ed è per questo che un musical che balla, usura in riff rock wave anni ’70 le corde delle chitarre, dove la musica, gli hippie e tutto il folk popolare Seventies si dimena in un equilibrio di grande talento artistico, un po’ urla e un po’ profana questo messaggio di dolore e amore rivelandone l’appassionata brutalità, nel tentativo rock di rendere omaggio ad un uomo che non si può comprendere nel suo disperato amore per il mondo e neppur dissacrare.

E allora Jesus Christ Superstar ne fa un’esaltazione, esalta il messaggio di Jesus, riabilitandolo in chiave hippie e contribuendo a riaffermare una storia iconica in tutto il mondo.

I riferimenti all’attualità tagliano trasversalmente l’opera: le 39 frustate di Gesù schioccano, in una piece interattiva, multimediale, immagini di martiri di ieri, di oggi, di domani, un coup de theatre metanarrativo che clamorosamente trascina lo spettatore in un altro teatro, quello reale, di guerra.

Il cast di ballerini effervescente, le sonorità flower power, il Giuda che si fa primo artefice del messaggio che ha tradito, cantando e ballando in un tripudio soul gospel, le voci ipnotiche della Maddalena, il mezzo soprano ucraina Sofiia Chaika, protagonista anche dell’omaggio alla sua terra e alla pace con la collega russa Anna Koshkina, esaltano una ricerca mai sopita di un Eden senza tempo a cui tutti vorremmo appartenere.

Questa inedita versione di uno dei musical più amati al mondo, alla fine sembra raccontarci una storia che a pensarci bene si ripete sempre: l’arroganza di un potere assoluto – sciovinista, ignaro che ci si possa amare solo accettando la diversità, l’indipendenza di giudizio, l’onestà intellettuale dell’altro, che sia un popolo, una nazione, una donna, un uomo.

E come in tutte le storie in cui poi la sopraffazione prende il sopravvento, l’atto di violenza è preceduto da una delirante escalation, una logorrea paranoide che lotta contro ciò che si ribella al suo sistema di pensiero finché, nell’impossibilità di annetterlo, gli dichiara guerra.

Così Caifa in un’orda di pensieri rabbiosi che ruotano sul rifiuto dell’indipendenza di pensiero di Gesù, decide inappellabilmente che: “Jesus must die, Jesus must die”, mentre Giuda sceglie di tradire il suo profeta, affascinato e spaventato a un tempo, dall’amore disarmante che questa figura emana.

Così uno zar scatena una guerra contro un Paese di cui non ammette diversità e indipendenza e che pure vuole tutto per sé, perché dice di amarlo, ma non può amarlo senza ucciderlo.

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