Lo Zoo di Vetro di Tennessee Williams diretto e adattato da Leonardo Lidi è pazzesco. Sarà in scena fino al 27 febbraio al Teatro Vascello e perderlo sarebbe un delitto!

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Lidi distrugge il mondo di Williams e lo ricrea a sua immagine, amplificato dalle lenti del colore, del suono, del movimento e della stasi, in chiave antinaturalistica, ma – straordinariamente – anche ipernaturalistica. Il distacco e l’estasi emotiva trovano crepe persino nelle più insignificanti inflessioni quotidiane e i gesti, parcellizzati o reiterati ossessivamente, accompagnano le parole del drammaturgo, limitandone la tradizionale patina storica e scoprendone tutti i nervi più profondi. Lidi cancella alcune parti e ne reitera altre, portando in primo piano tutte le parole: persino le indicazioni delle scene. Senza mai rompere il magnetismo emotivo che passa direttamente dal palco alla platea. Grande prova attoriale per tutto il cast in scena, ma anche notevole sforzo per gli aspetti tecnici che completano un meccanismo perfetto, almeno nella resa di quella che sembrerebbe essere un’idea registica travolgente. In linea con certe operazioni che ha intrapreso Latella, ad esempio, per cui molti lo hanno criticato, ma molti altri adorato. Lidi riesce a stravolgere la scrittura di Williams, senza attirare su di sé sentimenti di odio dagli spettatori in difesa di una tradizione confortante, ma non così radicata come altri testi nostrani (penso al Natale in Casa Cupiello).

Scene e light design firmate da Nicolas Bovey ci trascinano fuori da ogni realtà: una struttura rosa, con i mobili scarni e rosa anch’essi, un fondale da casa di bambola, senza porte, senza finestre, senza tetto. Un luogo accogliente e spaventoso come solo i giochi dei bambini sanno essere, proiezione ideale di una teca in cui sono conservati i personaggi, anch’essi riduzioni di umanità, come gli animali di vetro. Tutto intorno la neve o l’acqua o la plastica o il nulla. Tutto attorno il mondo esterno, che non può e non sa entrare, perché la vita familiare è stretta in quello spazio ed è tenuta insieme dalla finzione e dalla parte che il destino assegna a ciascuno dei componenti. Una parte – scenica e umana – ben sottolineata dai costumi di Aurora Damanti: essenziali e perfettamente identificativi. Tre pagliacci (il quarto è solo una citazione di assenza) che si massacrano l’esistenza fingendo e seguitando a fingere a oltranza, fra le pause analitiche sospese di riflessioni e risentimenti. Pagliacci nei gesti, nella voce e nella scansione della parola.

Pagliacci nel bene e nel male: allegri, ma da far rabbrividire; tristi, ma da impazzire. Su queste premesse gli attori esprimono il loro potenziale per tutto il tempo, senza sosta, declinandolo con le grida, i sussurri, le risate, i sorrisi. Così Tindaro Granata è un Tom arrendevole e sfuggente, dai tratti malinconici e mai aggressivi. Un Tom che sembra delicato come e più della sorella, che si nasconde nelle sue fughe, che non sa gridare contro un genitore irragionevole, sfruttatore ed egoista. Un Tom che fugge con le poesie, che rischia il lavoro e sogna una fuga altrove: il tutto comunicato, spesso, da un solo sguardo, da un piccolissimo gesto, da un suono inarticolato. Mariangela Granelli, la madre Amanda, alterna l’asciuttezza della sofferenza profonda, fatta di lacrime gettate in pasto al pubblico, alla spigliatezza dei sorrisi imposti dalle regole sociali. Regole che cadono con violenza su tutti. Ma se gli uomini di casa genericamente fuggono, le donne sono costrette a restare e farsi carico di uno spazio vuoto, arricchito dai sogni infranti – come l’unicorno – e dai ricordi giovanili, che vanno perdendosi. Ostinata e irresponsabile, resta sempre testimone di tutto quanto accade intorno: a volte complice, altre senza energie.

Anahì Traversi è una Laura dolcissima, che tramuta la timidezza in gesti muti, frasi atone e lacrime di sofferenza. Il suo essere diversa – fisicamente sottolineato dall’assenza di una delle due scarpe da pagliaccio – è il fulcro del dramma. Ma qui, più che in Williams che ne fa una sorta di vittima, la sua diversità, in realtà, condiziona tutti, pur senza volere. Più dell’egoismo altrui, è questa sua caratteristica a portare all’esasperazione i personaggi del dramma: la madre che non sa darsi pace dei suoi atteggiamenti autodistruttivi, il fratello che non riesce a sfuggire al suo ricordo, neppure con l’alcol o il cinema, evasioni per eccellenza dai dolori e dalla realtà. Persino Jim (Lorenzo Bartoli) subisce la sua diversità, affascinato dalla ragazza che lo idolatrava da giovane, ma troppo compromesso nella vita reale da abbandonarsi alle sue fantasticherie fino in fondo. La sua apparente profanazione sessuale sancisce invece la conclusione della finzione: le due donne abbandonate come marionette in una casa in disfacimento, si accasciano, mentre Tom, solo all’esterno, non troverà mai fine alla sua sofferenza. Questo sistema complesso di linguaggi trova, inoltre, il suo completamento nel sottile lavoro di sound design svolto da Dario Felli.

Lo Zoo di Vetro di Tennessee Williams

adattamento e regia Leonardo Lidi

con (in ordine alfabetico)

Lorenzo Bartoli, Tindaro Granata, Mariangela Granelli, Anahì Traversi

scene e light design Nicolas Bovey

costumi Aurora Damanti

sound design Dario Felli

assistente alla regia Alessandro Businaro

produzione LAC Lugano Arte e Cultura

in coproduzione con Teatro Carcano Centro d’Arte Contemporanea, TPE – Teatro Piemonte Europa

in collaborazione con Centro Teatrale Santacristina

partner di ricerca Clinica Luganese Moncucco

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