Dal 18 al 28 gennaio è andato in scena al Teatro Belli Sulle spine, un noir psicologico da morire dal ridere, scritto e diretto da Daniele Falleri.

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Torna, dovremmo dire, dopo più di 20 anni.

L’autore aveva proposto questo testo – e questo tema – in tutt’altro periodo storico, quando cioè la questione dell’identità, della sua scoperta e consapevolezza in ambito omosessuale era forse un tema più acceso e dibattuto, per tanti, troppi motivi storici che in questa sede non è opportuno approfondire. Oggi fa ugualmente pensare, ma in maniera diversa, forse meno dirompente perché l’asse del pensiero in questo ambito si è spostato altrove: dall’io all’altro e al rapporto con esso, fino alla creazione di un terzo nucleo, la famiglia, un figlio. Un terzo polo che però, paradossalmente, riapre di nuovo la questione dell’identità in relazione alla genitorialità: si è dunque da capo.

Riflettere, allora, con leggerezza, ma anche con acume sul tema dell’identità è forse altrettanto urgente. Ed è una buona riflessione quella di Falleri che ci fa stare “sulle spine” in questa corrosiva carrellata di situazioni al limite in scena in questo gioiello della scena teatrale romana.

Urbano Barberini si misura nuovamente nelle vesti molteplici e variegate di questo personaggio ai limiti fra cronaca nera e fantasmagorica invenzione. Un “tipo” i cui enormi denti ricordano quelli di Alberto Sordi, ma la cui lingua, quasi biforcuta, sembra alludere, oltre che alla perversione dell’affermazione di sé, anche a certa linea di comicità anglosassone.

Le movenze, così come gli abiti, sono all’inizio vagamente allusive alla omosessualità del protagonista, ma poi esplodono nella parte finale (esplosione non è un termine usato a caso) in una femminilità che è specchio della figura materna. Anche se della madre si ricercano realmente solo gli attributi esteriori, senza il desiderio profondo di abbandonare la virilità, così come della femminilità vengono messi in luce sostanzialmente due aspetti: quello di confronto con le altre donne e quello di assistenza dell’uomo, qui psicoanaliticamente identificato con il fratello.

Sulle spine

In tutti i casi, comunque, Barberini è a suo agio, snocciolando le battute con rapidità e sagacia, con ironia e malvagità, senza scomporsi mai di fronte a nessuna delle situazioni assurde in cui si trova immerso.

Sulle spine è letteralmente una corsa all’affermazione di sé a discapito di chi tale affermazione ha voluto limitarla, negarla, reprimerla, ignorarla o, infine, combatterla apertamente con atti e parole. Che sia una riflessione più sull’autopercezione e meno sulla idea che gli altri hanno di noi è chiaro dal sistema comunicativo utilizzato: il monologo.

Come voce dell’interiorità e assenza dell’interlocutore attivo – nonostante il ruolo riconosciuto soprattutto alla madre di interlocutrice indiretta – il monologo ha la possibilità di far emergere sostanzialmente un solo e univoco punto di vista, in particolare se il personaggio interpretato resta il medesimo per tutta la messinscena. In questo testo i momenti del monologo sono scanditi dalle situazioni di confronto silente. Che sia un morto di famiglia o uno psicanalista silenzioso, un pesce rosso o un telefono, non manca mai il colpo di teatro finale a chiusura della situazione.

Si resta interdetti un poco alla fine, quando la conflagrazione distrugge tutti i rapporti umani mentre il protagonista, fuggendo, può ricostruire la propria vita.

Efficaci gli effetti luminosi degli schermi, che associano un colore a ogni situazione. Altrettanto accattivante la canzone Sulle spine scritta e interpretata da Rettore che accoglie e saluta il pubblico.

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