In questo tempo di ritorno alle abitudini precedenti la pandemia, mai come in altri è importante per la socialità il recupero di spazi e tempi di incontro e confronto. Il Centro culturale Artemia è uno di questi spazi che, attraverso una attenta programmazione artistica ad opera di Maria Paola Canepa, offre ai suoi utenti occasioni uniche (leggete tempi) sia sul fronte della formazione (laboratori, workshop, stage ecc) sia su quello della programmazione dal vivo. Il centro non si è mai fermato neppure durante i lockdown grazie a una intensa attività on line, ma dalla ripresa a pieno regime ha proposto e seguita a proporre appuntamenti in presenza imperdibili.

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Concluso il Sipario delle donne – una rassegna interamente dedicata alla femminilità con spettacoli, incontri e nella “Sala Lydia Biondi” la mostra pittorica intitolata “Il Tunnel degli Artisti Maledetti” della pittrice romana Paola Alviano Glaviano – e in attesa della 6° edizione 2022 di “InCorti da Artemia – Festival Nazionale di Corti Teatrali” che si svolgerà dall’8 al 10 aprile, il Centro seguita a ospitare spettacoli che propongono temi di attualità e lasciano spazio alla giovane drammaturgia.

È il caso di Diario di Luna, scritto e diretto dal siciliano Romano Gennuso. Si tratta di un testo che, partendo da un fatto di cronaca, vuole riflettere – senza giudizio morale – sulle scelte familiari, sugli accadimenti della vita, sui rapporti e, probabilmente, sulla libertà. Un “cunto” che parla attraverso due voci principali: Luna, una giovane ragazza, e sua madre. Il resto dei personaggi che fanno parte del dramma appaiono attraverso le loro parole o i loro gesti. La frammentarietà del racconto e lo slittamento temporale fra gli accadimenti non aiutano lo spettatore nella comprensione di quanto narrato, che forse si ricompone solo alla fine con un colpo di teatro evidentemente orchestrato per offrire una chiave di lettura quanto più macabra e sinistra sull’intera faccenda. In fondo non esiste vera e propria colpa, ma solo atti e scelte, forse estreme, certamente non sempre condivisibili, eppure degne di compassione e di comprensione. Le parole, poche e spesso monologiche, che portano avanti la trama sono rapsodiche, a senso unico e a volte incomplete: si ha l’impressione di non avere mai un quadro chiaro. Neppure alla fine in verità: restano molti, troppi interrogativi e se, da una parte, è un bene, dall’altra si sente la necessità di alcuni punti di riferimento all’interno della vicenda stessa. In breve: Luna ha una famiglia spezzata dalle disgrazie, cui si aggiunge da ultimo un abuso da parte di un uomo più grande. La madre si farà carico di tutto questo, relegando Luna in uno stato di prigionia forzata, quasi di morte sociale.

Se il testo è, per certi versi, incompleto e fornisce solo brani di episodi, anche la regia, curata dallo stesso Gennuso lascia perplessi. Egli utilizza lo spazio scenico porzionandolo, ma senza dare ad esso una connotazione chiara. Alcuni luoghi si trasformano in altri, ospitano personaggi che non dovrebbero esserci, mescolano momenti e tempi non contemporanei, infine anche i gesti restano criptici ed è difficile comprendere persino la segregazione della giovane Luna in uno spazio altro, a causa della presenza materna. Così è difficile anche capire perché la benevola figura paterna sia citata in apertura per poi trasformarsi in una madre tirannica e, quasi, mitologicamente crudele. Colpiscono alcuni momenti intensi, ma sparsi e non organicamente collegati fra loro né sviluppati in una linea temporale che ne permetta una ricostruzione a posteriori (come accade ne La ragazza nella nebbia ad esempio, per citare un’opera dalla volontà creativa simile).

Queste caratteristiche sceniche non depauperano però la forza e l’intensità dell’interpretazione dei due protagonisti che si impegnano in ogni frammento del dramma. Gisella Cesari delinea una Luna fragile e perduta, con gesti e parole spezzate, affranta e sconfitta nella sua stessa debolezza, incapace di reagire alla crudeltà materna spezzando un giogo ingiusto. Piega il timbro vocale per avvicinarlo a quello di un’adolescente e si affloscia su se stessa per trasformare i dolori di Luna in qualcosa di visibile e, quasi, tangibile. Non sempre costante nella sua interpretazione, resta però davvero impressa nella scena dell’abuso: una sorta di macabro ballettto. Accanto a lei, Mauro Toscanelli è perfettamente calato nella figura crudele della madre dall’inizio alla fine, ma in una maniera granitica e univoca. Non ha tempo per le sfumature, non ha spazio per le crepe. Crudele verso la figlia – capiremo nel finale – ma anche verso se stessa, sfrutta le espressioni del viso, la postura, la camminata solenne, tutti i suoi artifici scenici per tradurre l’ineluttabilità del destino di questa donna del sud, vittima di una società che non permette neppure a lei alcuna via di fuga. Facendo ciò, però, la spinge ad un eccesso da cui non riesce a uscire, offrendoci in fine di sé solo il lato crudele, bestiale, mai umano. La brevità del testo lo costringe a rimanere fedele a questo modello che non si evolve, come se avesse sempre tirato il freno a mano della sua creatività poliedrica. Per entrambi i personaggi, allora, restano emozioni e tensioni sospese che non trovano posto in questa evoluzione drammaturgica, un’occasione per riflettere, in sede creativa, sull’opportunità di equilibrare diversamente gli episodi per incrementare le possibilità interpretative dei due protagonisti. Persino il diario, infatti, che sembra essere materializzazione del dramma – una sorta di correlativo oggettivo – non trova spazio se non in maniera marginale e, a volte, eccessivamente prevedibile.

Essenziali, ma forse ancora troppo didascaliche le scenografie, mentre davvero belle le luci curate da Danilo Caiano: un paio di volte hanno dato agli attori una profondità emotiva inaspettata.

Il diario di Luna
Il diario di Luna – locandina
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